Zoombie Manager

Loro non sopportano più la luce dello schermo

Quando non ci sarà più posto in ufficio, i morti cammineranno in chat? Detto così suona un po’ tenebroso, ma diamine, non le vedete già anche voi queste inquietanti figure di impiegati abulici e con lo sguardo fisso? Sono i nuovi zoombies. Una specie di relitti umani in via di apparizione in ogni impresa. Ovvio: ai tempi del Covid-19 il lavoro da remoto non è più remota possibilità, ma imperativo categorico morale, con un uso compulsivo dei meeting virtuali.

Hai voglia poi a spararla grossa e spacciare avatar, ologrammi, videoconferenze e meeting in realtà aumentata come una cannonata pazzesca o sperare di cavartela con un’ottima guida all’onboarding virtuale, come quella pubblicità online di LinkedIn. L’iniziale entusiasmo (riduzione dei costi e del traffico) si è trasformato, dopo un anno e passa, in stanchezza o, meglio, in “zoom sonnolenza”, con disturbi di tipo mentale e motorio, anche perché molte imprese gestiscono malissimo la risorsa virtuale e con uno scarso rispetto dei ritmi biologici umani.

Insomma, faremo, forse, la fine di L’uomo senza sonno, angosciante film di Brad Anderson, consumati (e disperati) da una vita disumana. O forse anche no. Dipende. Vediamo cosa succede in giro.

Survival revival
Torna di moda la sopravvivenza. Imprese senza più uffici, riunioni senza più pacche sulle spalle, accordi senza più strette di mano e sì, pause caffè senza più ammiccamenti o flirt. E già si rimpiangono le troppe trasferte e le troppe notti passate negli alberghi. Mica facile sopravvivere all’impatto virtuale, mentre riviste come Fast Company titolano soddisfatti “Zoom towns are exploding in the West”. Forget the rest, di una vita normale. Qui si parla di avatar o gemelli digitali che timbrano il cartellino al posto nostro nei nuovi uffici virtuali, di robot, o replicanti, in giro per la città e gli uffici a spassarsela, e noi a casa a lavorare come bravi cagnolini, a distanza.

Lavoro troppo ibrido?
Si fa un gran parlare (bene) dell’ibridazione del lavoro (in parte in ufficio e in parte a casa). Ma è così? Non proprio. Nel lavoro a doppio binario non tutto fila così liscio come raccontano i sostenitori ed evangelisti del remote working. Alcuni segnali. Il lavoro in remoto produce spesso la sindrome del “chiudersi a riccio”, con isolamento e imbruttimento (anche mentale). Ai manager piace poco o per niente il lavoro da casa (infatti la maggioranza preferisce “rifugiarsi” in azienda), ma il grosso dei collaboratori è confinato in casa (questo crea malumore). Più tempo le persone passano a casa, meno sentono che stanno lavorando a un progetto comune. Il comportamento diventa più egoista, meno collaborativo e anche meno produttivo. Senza contromisure e un’attenta gestione del team building a distanza si rischia parecchio.

Contactless is stress
Lo sappiamo tutti molto bene: contactless is stress. Ma dobbiamo farcene una ragione. Qui si va per le lunghe e prima che la vita sociale reale possa riprendere, quella virtuale avrà preso il comando delle operazioni costringendo tutti, dal direttore generale all’ultimo collaboratore occasionale, alla digitalizzazione esistenziale coatta. Ma così sarà. Stress, dunque. Soprattutto se stai a casa a stretto contatto (paradossale, vero?) con i tuoi cari. L’obbligo di condividere gli spazi di home office, e relative conferenze con la famiglia, crea infatti stress e tensione perché pochissimi dipendenti sono preparati ad affrontare giornate lavorative in videoconferenze non-stop senza più veri contatti con i colleghi. Inoltre, mica tutti sono tagliati per l’home office e la vita appartata (sospetto nessuno, a parte qualche barbuto eremita) e anche quelli adatti spesso si stufano presto (come giusto che sia). Morale: l’home working non è una panacea. Richiede non solo la scelta delle persone più portate, ma anche una gestione che crei la giusta alchimia fra socializzazione (in ufficio) e autogestione (a casa).

A corto di idee
L’innovazione pretende socializzazione? Certo, ma non quella sui social media, rigorosamente a distanza. Ho partecipato nella mia vita a tantissime riunioni di brainstorming e funzionano solo in modalità face-to-face nel mondo reale (creare è partecipare). Soli davanti allo schermo non è un buon modo per trovare nuove idee. Il rischio che un’azienda perda il proprio potenziale innovativo per colpa dell’home working è reale e già documentato da molte ricerche sul campo. Come afferma Joyce Park, imprenditrice della Silicon Valley, «in remoto manca il feedback veloce e gli sguardi di consenso e dissenso». Insomma, occhio.

Convincere a distanza
Mica facile convincere qualcuno a sborsare un milione per qualcosa che non si può toccare e trattare di persona. Ci riescono Christie’s e Sotheby’s con le loro costosissime aste online, ma noi comuni “mortali commerciali” cosa possiamo fare? Certo, possiamo puntare, proprio come loro, su trattative in live streaming evolute, certo, possiamo puntare su soluzioni in realtà aumentata che rendono ogni contatto più “tangibile”, certo, possiamo imparare l’arte della negoziazione virtuale, certo, certo, certo, basta che poi non vogliano convincerci che questa sia vita vera.

Il caregiver aziendale
L’unica domanda che dovete fare ai vostri collaboratori è: come state? E poi agire di conseguenza. Il burnout produce blackout cognitivo, inutile negarlo. Le human resource devono forzatamente diventare healthy resource: risorse in perfetta salute. Sì, ma come? È semplice. L’azienda è una piccola famiglia e l’office caregiver (professione da creare?) si prende cura, assiste e supporta i propri “cari” colleghi nei momenti di difficoltà. Un manager che monitora l’umore e lo stato di salute del proprio team durante e dopo la pandemia.

Il grande fratello manager
Altroché empatia, qui si rischia il capo che spia. Se tutti lavorano in remoto, scoppia la passione per la sorveglianza remota. Grazie a tecnologie sempre più pervasive, magari con software di “monitoraggio della produttività”, come Hubstaff, i dipendenti rischiano un tracciamento e controllo dei comportamenti costante. Non è neanche da escludere, per quelli che lavorano duramente in “trincea”, l’uso e abuso di sostanze dopanti (adattogeni, smart drug, farmaci psichedelici) per amplificare resistenza e performance. Manca solo il cyborg staffer.

Burnout? Magari
Se tutto è possibile in una realtà che tale non è più, allora siamo già in pieno Matrix. A questo punto il tanto temuto burnout è il minore dei problemi. Per esempio, potrebbero spiarvi e giudicare i vostri sbalzi d’umore con strumenti di controllo come Moodbeam, con monitoraggio produttività e funzioni da strizzacervelli in remoto. Oppure potrebbero prelevarvi dal vostro amato e “nidoso” home office per chiedere un riscatto o dati (sull’azienda) sensibili. Non ridete. Il sequestro di manager dalla scrivania di casa è un rischio reale e temuto, almeno negli States, dove il 70% dei manager ha dichiarato in un sondaggio (fonte: Ontic Center for Protective Intelligence) che le minacce di rapimento sono drammaticamente aumentate in questi mesi.

Cosa si può fare?
Intanto chiedersi se nella propria azienda il lavoro è intelligente (smart) o distante (remote) – c’è una bella differenza e spesso le due cose non coincidono in coppia – e poi partecipare il 4 maggio a Zoombies, il 26° evento del ciclo Future Management Tools di Cfmt (vedi box sotto). In quella occasione sveleremo come si diventa remote leader per salvare i propri collaboratori dalle tombe virtuali nelle quali si sono ficcati.

HOME OFFICE, PRIVILEGIO PER POCHI

Post-pandemia: cosa resterà di quei giorni? La società di consulenza McKinsey ha studiato l’impatto del lavoro ibrido in 9 paesi e infiniti settori e professioni. Ecco alcuni highlights: anche in futuro, solo una minoranza altamente istruita, qualificata e retribuita lavorerà in modo ibrido; in media un lavoro su due non può essere fatto da casa; il lavoro ibrido sarà più diffuso nel settore finanziario. Qui, il 76% del tempo lavorativo può teoricamente essere gestito da casa. Segue il management (68%), i servizi professionali (62) e l’It (58%).
Scarica lo studio di McKinsey – What’s next for remote work


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