Come vede il mondo dell’informazione oggi riguardo al suo ruolo di quarto potere in Italia e all’estero?
«L’informazione è al centro di un impetuoso rinnovamento tecnologico. Ma anche nel mondo della multimedialità, dei contenuti prodotti dagli stessi utenti, della pervasività dei social network, il buon giornalismo fa la differenza. Ancora più di prima. A patto che sia indipendente, di qualità e autorevole».
I giornalisti professionisti che ruolo hanno, anche considerando che oggi con i social e il digitale tutti facciamo “informazione”?
«Tutti fanno informazione. Basti pensare che non esiste ormai un fatto di cronaca che non venga documentato da protagonisti o testimoni, con immagini, foto e video postati sui social network, sviscerato e commentato dagli stessi utenti. Ma per dare senso e profondità ai fatti occorrerà sempre un professionista serio e preparato che non si fermi alle verità ufficiali, che smascheri anche l’inganno delle apparenze, che indaghi e si ponga interrogativi e dubbi. Non c’è niente di peggio del testimone in diretta che pensa di aver capito tutto di un fatto per il semplice motivo di averne visto un frammento, salvo poi accorgersi, leggendo e documentandosi, che la realtà è molto diversa».
Il digitale ha sconvolto il mondo dell’informazione. Non le pare che si dia troppo peso al mezzo e poco a quello che è il prodotto e valore vero, cioè l’informazione ben fatta?
«In parte la sua affermazione è vera. Non è il mezzo, per quanto mirabolante, che fa il prodotto. Prenda Periscope, che consente di farci seguire e di ricevere commenti in diretta dagli altri navigatori. Non basta avere una camera puntata per essere credibili e convincere. Ci vogliono i buoni argomenti, soprattutto le notizie. E quelle si hanno con lo studio, la perseveranza, i contatti, l’esperienza. L’informazione di qualità, approfondita e critica, rimane. Pesa, incide. Quella scialba, d’istinto e raffazzonata, si perde come d’incanto nelle viscere della Rete. Fallaci, Montanelli, Biagi erano grandi giornalisti indipendentemente dal mezzo – giornale, radio, tv – che usavano».
Parliamo di pubblicità e del suo calo… Non è ora di farsi pagare di più dal lettore il prodotto informazione?
«I giornali sono aumentati molto di prezzo. Forse troppo. In sostanza, del 50% circa in cinque anni. Ho dei dubbi che sia la strada giusta, anche se la tendenza è innegabile in tutto il mondo. Sono convinto invece della necessità di passare a forme di pagamento per le notizie online. In questi anni abbiamo abituato male i nostri lettori, indotti a credere che l’informazione sia una commodity gratuita».
Cosa pensa invece di nuove forme di investimento pubblicitario che su ben definiti target di lettori paghi in parte il costo di un’informazione mirata e segmentata?
«L’investimento pubblicitario tradizionale, quello tabellare, è in crisi. Il mercato si è dimezzato di valore in pochi anni. Innegabile che si debbano sperimentare nuove forme. L’exploit dei video aiuta a comprendere quali saranno le nuove frontiere della comunicazione pubblicitaria. Una comunicazione che parla direttamente con l’utente, stabilisce un rapporto esclusivo, anche grazie ai canali di e-commerce. Le aziende credono molto negli eventi, i media possono aiutarle con idee di qualità. Ma non credo assolutamente nel branded content e nelle notizie o inchieste sponsorizzate. La separazione fa bene a tutti. Giornali e investitori».
Lei prima ha parlato dell’online… ma la carta è morta o morirà?
«La carta è già stata data per morta da molti che sono poi morti prematuramente. Si ridurrà il peso rispetto al digitale, al web. Ma resterà. E oggi è ancora la certificazione che un prodotto culturale esiste».
Come vede l’Italia da cittadino in prospettiva. In quale tunnel siamo finiti e se e come possiamo uscirne?
«In sintesi. Non cresciamo da vent’anni. Siamo invecchiati e abbiamo perso la voglia di combattere, di soffrire, la determinazione dei nostri anni migliori. Dobbiamo smetterla di pensare a redistribuire quello che non c’è più e pensare all’efficienza, alla sfida sulla competitività. A creare nuova ricchezza, non a preparare nuove povertà. Liberalizzando e investendo nella conoscenza e nella formazione continua. Abbiamo un grande capitale sociale, una rete straordinaria di volontariato, territori e competenze invidiabili. Ma non sono eterni».
Non le pare che oggi in Italia troppi non svolgano appieno il loro ruolo tra i canonici poteri, nelle organizzazioni politiche e nei corpi intermedi?
«Sa qual è il vero problema italiano? In pochi fanno appieno il loro lavoro, con un’etica della funzione adeguata. In troppi fanno troppe cose e male. Con superficialità e un modesto senso del dovere. Ecco, dovremmo parlare più di doveri, senza i quali i diritti sono solo apparenti».
E noi cittadini italiani non siamo un po’ troppo passivi?
«Siamo forse rassegnati, incapaci di vedere un punto di svolta. Prenda la scarsa partecipazione al voto. Preoccupante. Molti poteri, non solo quelli politici, trattano i cittadini come sudditi. L’indifferenza è un’altra forma di ribellione. Non ci credo, non partecipo e scivolo in un pessimismo cupo che tende a non dar valore più a nulla. Così si creano nuove solitudini, distanze ed estraneità. Il problema del nostro Paese è soprattutto nella crisi della democrazia rappresentativa. Perché scegliere, partecipare e votare se qualcuno ha già deciso per noi?».
Cosa deve cambiare nella società italiana?
«La coscienza di essere comunità. La possibilità di dare un futuro alle nuove generazioni. Una scossa di moralità e fiducia. Un’idea dell’Italia che verrà. Orgogliosa non rinunciataria. La gioia di fare qualcosa bene, che resta. La sfida del futuro è fatta di sogni. E i sogni sono rischiosi. Il futuro non è un diritto acquisito. Si costruisce con sacrifici giorno per giorno».
Come possiamo riprendere a crescere dal punto di vista economico?
«Investendo nell’innovazione ma soprattutto nella scuola e nell’università. La conoscenza è la chiave della crescita. Ma non ho mai assistito in Italia a un giorno dedicato all’insegnamento. A molti scioperi sì. Abbiamo discusso più di insegnanti e precari. Poco di materie, eccellenze. Pensi solo alla ritrosia con la quale si accettano valutazioni e classifiche. C’è un fastidioso protezionismo intellettuale».
Come deve cambiare il mondo del lavoro e il lavoro in Italia?
«Il Jobs act è un passo avanti, anche se non ho ben capito quanto costerà a regime la decontribuzione e la stabilizzazione dei contratti. La strada dei mini jobs alla tedesca non è sbagliata. Con i voucher si è arrivati a creare qualche modesta alternativa al lavoro saltuario, anche se il nero è ancora abbondante. Credo che il passaggio, nelle età più avanzate, a forme contrattuali part-time con un contenuto sociale e fiscalmente agevolate possa rappresentare una proiezione di economia sociale non trascurabile».
Quale ruolo per imprenditori, manager, lavoratori?
Il semplice compito di fare bene il loro mestiere, con onestà, guardando al futuro delle loro aziende. Indipendentemente dal loro ruolo. Senza pensare che il mondo finisca con loro. Meno egoismo, più responsabilità».
Non le pare che da tempo, dopo avere avuto sin troppa voce e potere, i corpi intermedi siano troppo passivi e privi di idee?
«Sono contrario all’idea di schiacciare, fino all’irrilevanza, il peso dei corpi intermedi. È una tentazione autoritaria pericolosa. Ma è purtroppo una muscolarità apprezzata. Il loro ruolo è essenziale per la tenuta di un tessuto di relazioni sociali indispensabile alla società. Una rappresentanza corretta degli interessi non scade mai nel corporativismo più miope. Da noi purtroppo accade».
Cosa pensa dei manager che in Italia, terra di imprese piccole e familiari, sono pochi e spesso “mal visti”?
«Penso che ci sono bravi e pessimi manager. In genere sottovalutati. Che a volte siano i vasi di coccio delle ristrutturazioni aziendali. Ai quali si chiedono spesso sacrifici enormi, salvo poi liberarsene come inutili ferrivecchi».
Lei, come direttore, si sentiva ed era anche un po’ manager?
«Un po’ sì, senza averne le competenze e senza avere la responsabilità di un budget. Dunque, nella condizione peggiore».
Si dice che l’errore sia congenito e congeniale a chi vuole innovare e crescere. Nella sua carriera lei ha fatto degli errori che le sono stati utili per crescere e quali?
«Chi fa sbaglia. Chi innova passa da sconfitte amare. Il fallimento non è una vergogna se è indice di volontà, forma i caratteri. E i grandi innovatori sono stati anche dei falliti. Una buona società dà sempre ai volenterosi una seconda chance. I miei errori sono stati numerosi. L’elenco sarebbe lungo».
Guardando l’Italia tra dieci anni come la vede?
«Sono fiducioso, perché siamo un grande Paese che si risolleva sempre nonostante gli errori di una classe dirigente, politica e privata, che non ci merita, ma delle cui devianze, o pessime abitudini, un po’ di colpa portiamo. Senza esagerare, però».
Cosa farà da grande?
«Non lo so. Ho un patto di non concorrenza di un anno in Italia. Faccio il presidente di Vidas, del Memoriale della Shoah, di Longanesi. Scrivo. Non ho momenti liberi. Meglio così. Il vuoto è il peggior nemico. Con la noia».