Mai come in questo momento il nostro paese è segnato da grandi contraddizioni. Siamo un paese da tutti invidiato per lo stile di vita e la qualità e il benessere nel quale viviamo, ma è anche un posto dove manca la fiducia verso le istituzioni, dove si assiste a un progressivo imbarbarimento della vita quotidiana, dove più nessuno riesce a sentirsi pienamente a casa sua, non c’è crescita sensibile, aumenta il lavoro ma anche la disoccupazione, soprattutto giovanile. Sembra non esserci futuro, tutti sembrano vivere in un presente dilatato, senza prospettive. Non a caso diminuiscono le nascite, gli investimenti produttivi e ogni progetto che possa attivare larghi strati della popolazione. Siamo immersi in una vita non fantastica, ma anche non male. L’atteggiamento collettivo prevalente invita alle attese caute, agli adattamenti silenti. Ci si accontenta, non si rischia.
TORNA IL MITO DEL POSTO FISSO
Nella vita professionale così come in quella privata. Nelle piccole scelte quotidiane così come in quelle cruciali. Ci si sposa meno, si fanno meno figli, e comunque più tardi. È tornato il mito del posto fisso alla Zalone, dopo decenni di ostracismo sociale. Una volta aspirare al posto fisso per un ragazzo giovane era sinonimo di precoce fallimento, di una vita buttata alle ortiche prima ancora di essere stata vissuta. Oggi è una legittima aspirazione, socialmente accettata, ma in gran parte frustrata da un mondo pubblico ormai inarrivabile.
E allora che fare? Forse l’unica via possibile è affidarsi al fattore C. L’unico, imprevedibile, inatteso fattore C. C come fortuna, ovviamente.
Si spera, in altre parole, che le terga possano vincere dove la nostra volontà si è persa. Affidarsi a un grande, meraviglioso, miracoloso colpo di fortuna. L’alternativa appare ancora peggiore, perché significa perseguire agganci e compromessi poco trasparenti se non addirittura illegittimi. Sembra che un’intera generazione si prepari a una vita segnata dalla passività e dalla resa alla sorte. Nella nostra vita quotidiana la dea bendata è la foglia di fico che ci mettiamo quando non vogliamo ammettere che “avremmo potuto…” ma “…non abbiamo fatto”. Un modo per discolparci con noi stessi. Per trovare una facile via di fuga, senza nessuna verifica possibile, senza alcuna controprova che possa “incastrarci”.
Accettare il fato come elemento discriminante della nostra felicità equivale a un suicidio, in quanto ci toglie ogni responsabilità ma anche ogni possibilità di riscatto.
L’Italia è il Paese dove, se si parla di qualche persona che ha fatto carriera, si dice subito che è un raccomandato oppure che ha avuto un gran colpo di fortuna. L’invidia sociale impedisce di pensare che forse quel successo è stato anche meritato. Che non tutti al posto suo sarebbero riusciti dove lui è riuscito.
TUTTI RASSEGNATI?
Nel sospetto, nella passività e nel fatalismo che ancora oggi pervade molti comportamenti collettivi, emerge con forza la quieta rassegnazione ai mali del mondo presente. Non sono tanto interessato al possibile dibattito tra realtà e superstizione. Ciò che mi preme rilevare è “l’opzione etica” con cui ci dobbiamo misurare. Il lasciarsi andare alla superstizione individuale, al complottismo così come al fatalismo collettivo significa nei fatti smettere di attivarsi e assumere un atteggiamento rinunciatario verso la vita.
Nel pensare che dietro ogni successo ci debba sempre essere un comportamento discutibile, oppure l’imponderabile tocco del fato, vi è un pericolosissimo atteggiamento rinunciatario nei confronti di una vita che ci possa vedere protagonisti, attivi nel prendere in mano le redini del nostro futuro.
Io credo che ognuno di noi sia sempre artefice del proprio destino, pur non nascondendomi dietro il dito sulle mille ineguaglianze di cui siamo spessi vittime, così come delle grandi disuguaglianze tra nazioni ricche e povere del pianeta, così come all’interno di ogni singola società, anche la più avanzata, ugualitaria e “democratica” questa possa essere. Eppure, sempre, in qualche modo, noi siamo sempre e comunque, almeno per quota parte, artefici del nostro destino.
DAI NEET AGLI HIKIKOMORI
Rinunciare a questa consapevolezza significa negare la nostra stessa individualità, la nostra libertà più profonda, il nostro stesso essere. Un buon esempio di questo rischio è l’attuale situazione di molti giovani.
Oltre alla generazione Neet “Not (engaged) in Education, Employment or Training”), i cui numeri sono sempre più preoccupanti, sta emergendo anche un nuovo fenomeno, soprattutto tra gli adolescenti, ancor più preoccupante. Per capirlo, pensiamo a un ragazzo barricato nella sua camera con le tapparelle abbassate, il computer sempre acceso, musica e libri, il cibo consumato lì in una segregazione auto-imposta. Il fenomeno è molto conosciuto in Giappone — li chiamano hikikomori — ed è iniziato negli anni ‘80. Riguarda per lo più maschi primogeniti e il primo sintomo è la rinuncia a frequentare la scuola. Motivo: la pressione della società che chiede un atteggiamento competitivo e il giovane risponde negandosi. Le stime nipponiche variano da 400 mila a 2 milioni di coinvolti. Numeri molto importanti e il trend è ancora in crescita.
Anche da noi la prima manifestazione del ritiro sociale è l’auto-esclusione dalla scuola, annunciata ai genitori una mattina a sorpresa senza segnali premonitori.
Le stime italiane sono di 100 mila ragazzi ma ovviamente non è facile elaborare dati così delicati. Anche in Italia ad essere colpiti sono molto più i maschi perché a loro è stata trasmessa un’identità molto condizionata dal ruolo sociale e dal successo lavorativo. A cui molti giovani cominciano a rispondere sottraendosi e chiudendosi in una stanza. Il contatto con il mondo per loro avviene solo con il tramite della rete. Basta solo un click per astenersi da tutto e ritrarsi nell’accogliente spazio della propria camera, da soli, lontano da ogni pericolo ed ogni confronto. L’esatto opposto di un colpo di fortuna.
In libreria con il libro Il fattore C. Fortuna e determinazione nella vita e nel lavoro (Guerini Next)