Come sarà l’America di Biden?

Dialogo a tutto campo con Giovanna Botteri, da oltre vent’anni sempre presente nei luoghi e nei momenti topici degli accadimenti globali

Triestina, classe 1957, Giovanna Botteri è giornalista corrispondente per la Rai, inviata speciale in diverse zone di guerra, in prima linea per raccontare avvenimenti e fatti internazionali di rilevanza. 

Tanti i reportage e i servizi che ha realizzato nel corso degli anni nelle varie città del mondo dalle quali spesso si collega in diretta. Per 12 anni corrispondente da New York, è stata poi trasferita a Pechino durante la pandemia. Numerosi i premi e i riconoscimenti che ha ricevuto per la sua carriera. 

Da oltre 20 anni inviata all’estero, dal crollo dell’Unione Sovietica alla Cina, sempre presente dove sono “accadute le cose vere”. Qual è il bilancio di questa scelta professionale e di vita?
«Mi è sempre piaciuto scrivere, raccontare storie, fin dalle elementari. Credo che fare la giornalista sia stata una strada tracciata. Perché farlo dall’estero? Perché mi è interessato sapere e capire come vivono, come sognano, come sperano, come soffrono, come gioiscono quelli con cui apparentemente abbiamo tante cose che ci dividono: la cultura, la storia, la tradizione, la religione. Credo che nonostante tutto, pur essendo così diversi, così lontani, ci sia un terreno comune in cui riconoscersi. È questo il motivo per cui ho cominciato a viaggiare e a fare prima l’inviata e poi la corrispondente».

Come ha inciso in questo percorso l’essere donna?
«Credo che non abbia assolutamente inciso sulle mie scelte, anzi. Avrebbe dovuto essere non un deterrente ma un impedimento, semmai. Quando cominciai a fare l’inviata di guerra c’erano davvero molte poche donne che facevano questo mestiere, e aleggiava il fantasma di Oriana Fallaci. Era un mestiere da uomini perché la guerra era considerata qualcosa che solo loro facevano e potevano raccontare. Negli anni le cose sono cambiate. Ciascuno racconta le storie che conosce. E come donna forse non ho raccontato tanto le storie del soldato quanto soprattutto quelle del profugo, della famiglia, dei civili che la guerra la subiscono e non la fanno».

Cosa conta di più, sentirsi cittadina italiana o cittadina del mondo? E cosa le è mancato dell’Italia?
«Io sono triestina e i triestini, necessariamente, con quel mare, quel confine, quella storia, non possono che sentirsi insieme cittadini italiani e cittadini del mondo. Stare fuori dall’Italia comporta una situazione psicologica particolare, di cui peraltro mi rendo conto soprattutto adesso che non posso tornare in Cina per problemi di visto e che sto quindi vivendo per un periodo lungo, il primo dopo tantissimo tempo, fissa in Italia. L’andar via, il partire, sono per me qualcosa di estremamente energizzante perché mi obbligano a ricominciare ogni volta. Ricominciare vuol dire rischiare, vuol dire trovarsi in un terreno che può essere anche difficile, soprattutto quando si arriva in posti lontani e sconosciuti, dove bisogna capire, ricostruire, realizzare nuovi contatti, spesso ripartire da zero. Abbandonare le sicurezze, abbandonare un terreno conosciuto mi dà forza ed energia. La spinta arriva dalla curiosità».

Veniamo all’America, un paese che conosce a fondo: quali scenari con la nuova presidenza di Biden?
«L’America che nel 2016 ha scelto Trump era un paese molto spaventato che, in questi quattro anni, ha mantenuto la sua paura, nonostante l’economia sia cresciuta. Si è detto che Trump è sostenuto da un’America bianca, che sente erodere potere e privilegi, che vede non solo negli immigrati, ma anche nelle minoranze, con i loro diritti e le loro competenze, una minaccia. In effetti il minimo comune denominatore dell’America che ha votato Trump nel 2016 e che l’ha rivotato nel 2020 è la paura di chi si sente accerchiato e teme i cambiamenti, la globalizzazione. L’America che scelse Obama nel 2008 e ha scelto Biden nel 2020 è l’altra faccia dello stesso paese, quello che crede nella speranza, che sente la voglia di rischiare, che affronta le sfide del futuro di un mondo che cambia rapidamente. L’America è un paese di immigrati, è nata con l’immigrazione, con persone arrivate da ogni parte per farsi una vita. Questa è la sua vocazione, la sua forza, la sua grandezza: saper accogliere, accettare, integrare, costruire ogni volta qualcosa di nuovo. Durante l’insediamento di Biden, Jennifer Lopez ha cantato una canzone tradizionale, This land is your land, che dice, tra l’altro: “Questa è la mia terra, questa è la tua terra… questa terra è stata creata per te e per me”. Credo sia questa l’anima dell’America e credo che oggi, in qualche modo, l’America stia proprio cercando di recuperare la sua anima».

La presidenza Trump come ha cambiato l’America?
«Credo che Trump sia riuscito a spostare una “linea rossa” sdoganando una serie di posizioni estremiste che erano sempre state escluse nel partito Repubblicano e, più in generale, negli schieramenti conservatori occidentali americani, ma anche britannici ed europei, e non solo, penso per esempio a Bolsonaro. Trump ha portato un radicalismo forte che inevitabilmente ha fatto saltare il banco ovunque nel mondo, usando un linguaggio a cui in qualche modo ci siamo abituati. Quanto accaduto con l’assalto al Congresso ci ha fatto uscire da una dimensione che non riuscivamo a cogliere. Pensavamo che Trump scrivesse e dicesse cose terribili senza reali conseguenze, mentre dopo l’occupazione del Campidoglio tutti si sono resi conto del peso delle parole. Anche i conservatori se ne sono accorti. Ed è stato un risveglio scioccante provocato da un incubo. Adesso bisogna non solo ricostruire il Paese ma soprattutto quella linea rossa al di là della quale si supera il libero confronto tra idee e posizioni e finisce la democrazia».

Come è stato affrontato il Covid in America e quanto ha inciso e inciderà la gestione dell’emergenza sanitaria dell’amministrazione Trump?
«La gestione del Covid solleva questioni chiave che contrastano con molti dei valori che Trump combatte e ha combattuto. Per affrontare l’emergenza serve assistenza, sanità, solidarietà, sacrificio collettivo. Trump sin dall’inizio ha sposato tesi negazioniste minimizzando la gravità della pandemia e perdendo quindi l’occasione di preparare il paese per affrontarla. La gestione del Covid è stata disastrosa, anche perché Trump ha scardinato il sistema di protezione che era stato messo in piedi da Obama. E così gli Stati Uniti hanno avuto circa 400mila morti, più di quelli della Seconda guerra mondiale».

L’America di oggi appare nettamente divisa in due. Come stanno le cose?
«Io vedo un grande paese che ha espresso una scelta politica, dove la maggioranza ha scelto Biden. Trump ha preso 74 milioni di voti, ma tra i suoi elettori c’è una parte di conservatori allarmata che si sta chiedendo cosa sia accaduto e come può essere il futuro. Il gruppo dei duri e puri si è estremamente radicalizzato negli ultimi quattro anni, alimentando la voglia di contrapposizione e il rancore. Migliaia di persone credono che le elezioni siano rubate, che Trump abbia vinto, che i media siano tutti bugiardi. Superare questa frattura sarà dura, perché è difficile dialogare con chi non vuole il confronto. È difficile stabilire un terreno di scambio con chi vive in modo parallelo e rifiuta di guardare i fatti e la realtà. Credo quindi che questa America, che oggi chiamiamo trumpiana, resisterà e troverà nuovi leader. E dobbiamo fare attenzione, perché tra le persone che sono entrate nel Parlamento non c’è solo il contadino bianco povero del Midwest, ma anche la signora arrivata a Washington con un jet privato, il vincitore della medaglia olimpica di nuoto, il deputato della West Virginia. Ci sono anche le élite».

Che cosa farà Biden per l’America?
«La prima sfida è quella contro il coronavirus e sarà interessante vedere come si muoverà. Credo che adotterà un’organizzazione di tipo militare, gestendo con l’esercito la vaccinazione di massa in un territorio immenso. La seconda sfida è quella della ricostruzione: il piano proposto da Biden è ambizioso, prevede di spendere miliardi e miliardi di dollari e sarà un’occasione per riportare nel paese una maggiore giustizia sociale e razziale».

Dopo anni di egocentrismo, cambierà l’atteggiamento dell’America sullo scenario mondiale?
«L’America sa di dover affrontare un cambiamento degli equilibri mondiali il cui baricentro si è spostato verso la Cina e più in generale verso l’Oriente. Uno spostamento che riguarda tutto l’Occidente. L’Oriente non bussa alle porte, è già entrato. Cina, Corea del Sud, Singapore, Giappone, Taiwan, ma anche paesi emergenti come il Vietnam, hanno economie che marciano veloci grazie alla tecnologia. A differenza dell’Occidente e della Russia questi paesi hanno puntato sulla vittoria tecnologica più che sulla vittoria militare. La Cina pensa che il mondo si conquista con la tecnologia e non con i carri armati… È evidente che nel futuro dell’Occidente c’è un confronto o uno scontro con un Oriente sempre più forte. L’America ha un ruolo di primo piano nella ridefinizione delle regole su cui si fonderanno le relazioni tra Oriente e Occidente. Regole che credo debbano partire da un segno di apertura, di ascolto, di attenzione e anche di rispetto da parte nostra».

Come sarà la politica estera Usa verso l’Europa, verso la Russia e il mondo arabo?
«La politica estera di Biden in questo senso sarà di tutt’altro segno rispetto a quella di Trump. Biden, insieme a Obama, ha sottoscritto l’accordo per il nucleare con l’Iran e aperto una nuova pagina nelle relazioni con Cuba. Credo che Biden riequilibrerà le politiche eccessivamente filoisraeliane dell’amministrazione Trump e cercherà di recuperare la credibilità perduta sul piano internazionale, anche a seguito degli atteggiamenti compiacenti nei riguardi di paesi “amici” come con l’Arabia Saudita per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Ci sarà poi certamente un’inversione di rotta nei confronti dell’Europa, che tornerà a essere un interlocutore privilegiato per gli Usa. Sulla Russia c’è una grande incognita. Ci sono state polemiche sul fatto che la Russia e gli hacker russi abbiano lavorato per favorire l’ascesa di Trump. La Russia in questi anni ha ottenuto quello che voleva, si è presa la Crimea e la Siria. Però Mosca ha una situazione economica difficile e deve affrontare la pandemia. Sicuramente con Biden si apre una nuova fase di confronto. Credo che ci sarà quindi un nuovo indirizzo, un tentativo dell’amministrazione Biden di superare la politica di Trump, ma visti i tanti interessi e le variabili in gioco fare previsioni non è facile».

E con la Cina?
«Il ruolo della Cina nel mondo riguarda tutti. L’Europa ha pensato bene di fare un accordo con Pechino prima dell’insediamento di Biden, mentre Trump stava facendo le valigie. La Cina è un nodo fondamentale per tutti, è un partner commerciale importante, ma è anche un avversario commerciale ingombrante».

Prima ha accennato al fatto che i servizi segreti e gli hacker russi avrebbero influenzato l’elezione di Trump nel 2016. Rischiamo una nuova guerra fredda digitale?
«Le vicende degli ultimi anni e l’accelerazione degli ultimi mesi, dalla pandemia all’assalto al Campidoglio, hanno portato a una serie di consapevolezze sull’importanza strategica delle tecnologie digitali, dei social. Inevitabilmente ci saranno provvedimenti che, a mio avviso, dovrebbero portare a considerare i social media come degli editori, chiedendo conto alle piattaforme della correttezza delle informazioni veicolate, oltre a fargli pagare le tasse».

Durante la presidenza Trump, l’economia degli Usa è “andata bene”. Crede che i driver di questo sviluppo cambieranno con Biden e, nel caso, in quale direzione?
«Intanto dobbiamo chiarire cosa significa “andare bene”. L’America di Clinton è andata benissimo ma poi la deregulation ha portato alla bolla e alla crisi del 2008. Io credo che l’America, l’Occidente e il capitalismo globale debbano fare i conti con nuove regole, con nuove sfide e con nuove incombenze. La pandemia ha reso evidente che non ci sono più isole felici, che il modello di sviluppo trainato dal capitalismo – un modello copiato ed esportato in maniera ancora più selvaggia dai cinesi – debba essere rimesso in discussione».

Quindi parliamo di sostenibilità in senso ampio. Visto che noi siamo un’organizzazione sindacale di manager, quale dovrebbe essere il ruolo dei manager e della managerialità per creare un nuovo modello di sviluppo?
«Partirei con l’usare, oltre al termine manager, quello più onnicomprensivo di classe dirigente. Penso che in Italia, e anche in Europa, dobbiamo affrontare il problema della classe dirigente e della sua formazione. Per rispondere alle sfide del futuro serve una classe dirigente preparata e soprattutto indipendente dalla politica. In alcuni paesi, come in Francia, ci sono le grandes écoles che formano la dirigenza. La Cina ha investito creando università che sono in cima alle classifiche mondiali. In Italia vedo che la figura del manager è indebolita dalla politica. Bisogna investire nella formazione di una classe dirigente autorevole e competente».

Tornando al nuovo corso politico degli Stati Uniti, quanto conta l’informazione negli Usa?
«L’informazione conta tanto, è il quarto potere. È un potere forte e come tale viene considerato. Questo spiega anche l’accanimento che c’è stato rispetto ai media, le fake news, la violenza contro i giornalisti. Questo perché da sempre la stampa fa da cane da guardia del potere. Anche quella americana che, pur essendo finanziata dai grandi poteri, ha un orgoglio e una dignità molto forti».

E i social, che ora sono nell’occhio del ciclone, quale ruolo hanno oggi e quale nel futuro?
«I social sono importantissimi, sono un grande strumento e in quanto tali non sono né buoni né cattivi in se stessi. L’importante è l’uso che se ne fa».

Cosa significa l’elezione di Kamala Harris?
«L’elezione di Kamala Harris a vicepresidente è il culmine di una lunga marcia che le donne stanno facendo da anni negli Usa. Un cammino discreto, di casa in casa, fatto di organizzazione di base, di piccoli gruppi che perseguono grandi risultati. Ricordiamo anche i risultati della Georgia, in parte arrivata grazie all’attivismo delle donne, soprattutto afroamericane. Le donne sono state importanti per l’evoluzione della politica statunitense, hanno aperto nuove strade, anche lavorando in controtendenza, silenziosamente, con umiltà».

Quale sarà il suo ruolo rispetto a quello di Biden?
«È tutto da vedere. Certamente Kamala è più giovane, ha più energia di Biden. Viene da pensare che avrà un ruolo più forte di quello che tradizionalmente hanno i vicepresidenti, a partire da Mike Pence, che nei quattro anni di Trump è stato costantemente in ombra. Non bisogna però sottovalutare Joe Biden che, in tutta la sua carriera politica, è stato sempre sottovalutato e poi sulla distanza ha invece dimostrato la sua forza. Quando Obama lo scelse nel 2008 come vicepresidente, tutti lo criticavano perché non entusiasmava, mentre dall’altra parte c’era Sara Palin, molto più spumeggiante e mediatica. Ma poi alla fine quando si va a votare la gente pensa al vecchio Joe Biden, si riconosce in lui, si sente garantita, si sente rassicurata… Attenzione quindi a non sottovalutare mai Joe Biden».

A cosa dobbiamo guardare insomma, nella “luna di miele”, per capire se e come Biden cambierà l’America?
«Già Biden si è mosso sul trattato di Parigi, sull’immigrazione, sulla pandemia, per riportare i paletti là dove sono stati tolti da Trump. Gli scienziati dicono che per sanare i danni prodotti in questi anni all’ambiente non basteranno certo quattro anni di Casa Bianca. Ed è ovvio che la grande sfida dopo la pandemia sarà quella di affrontare il surriscaldamento globale. È evidente che tutto questo porterà a una nuova visione dell’economia. E proprio questo che ha spinto Biden a prendere da subito provvedimenti contro i mutamenti climatici: la necessità di spingere l’economia con il turbo pensando a quello che succederà ai nostri figli, ai nostri nipoti, nei prossimi venti-trent’anni».

Come sarà il mondo nel prossimo futuro? E lei dove sarà e quale parte del mondo ci racconterà?
«Non so dove sarò e come sarà il mondo. Posso solo augurarmi per il mondo di essere più in pace e per me di essere tranquilla. Quest’anno sono rimasta lontana dalla Cina e adesso devo aspettare un nuovo visto, che però in questo momento la Cina non rilascia… vedremo». 

Photo credit: Gage Skidmore

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