Coronavirus: qui Londra

Stiamo attraversando una pandemia. Di fronte a un virus altamente contagioso e ancora oggetto di studio, i governi dei diversi paesi hanno adottato specifiche misure, dal lockdown totale ad altri interventi più soft, sempre in relazione alla curva del contagio. Manageritalia ha raccolto alcune testimonianze di suoi collaboratori, manager e professionisti che vivono all’estero in questo periodo. L’obiettivo? Offrire una fotografia di altre realtà e punti di vista, raccontando l'impatto del coronavirus sulla vita quotidiana di società diverse da quella italiana, condividendo esperienze, passi falsi e best practice. Oggi scopriamo come si vive a Londra attraverso le parole di Andrea Lenoci, un giovane italiano che vive qui da oltre 3 anni e lavora come operations coordinator presso Findus Italia

VIVERE L’ESPERIENZA DEL CORONAVIRUS A LONDRA, come d’altronde in tanti altri posti, ci ha fatto conoscere e imparare diverse cose. La prima, e forse la più importante, è quanto sia dura, ma allo stesso tempo stimolante, vivere lontano da casa.
Vivo a Londra da più di 3 anni, in un tipico quartiere britannico nel sud della città. Qui le case sono tutte a schiera e i più fortunati hanno un giardino dove potersi abbronzare con questo atipico sole londinese.

Le notizie sul coronavirus sono arrivate subito e chiare dall’Italia, la quale è stata derisa per l’enorme mole di contagi. Gli italiani però hanno bocciato l’approccio britannico all’emergenza.
Boris Johnson, ergendosi a Winston Churchill, nonostante ciò che succedeva nel resto del mondo, ha preferito in prima istanza mostrare il pugno duro dichiarando se stesso e tutta la popolazione più resistente a qualsiasi contagio, tranne poi ritrattare inneggiando a una “immunità di gregge” che non è mai stata presa in considerazione scientificamente.

Gli italiani stessi, qui a Londra, non hanno digerito questo approccio approssimativo e permissivo, fin quando il 20 marzo il governo ha finalmente dichiarato un lockdown non molto restrittivo.
Difatti Johnson ha chiuso sì tutti i pub, ristoranti e attività di svago, ma ha permesso loro di restare aperti per le consegne Take Away, che è una delle prerogative dell’economia londinese.
Il trasporto pubblico è rimasto funzionante e tutti gli uffici, come il mio, non hanno chiuso completamente i battenti, ma sono rimasti aperti per chi fosse impossibilitato a lavorare da casa.

Lo smart working, tanto sdoganato, non è sempre attuabile in una città dove si è costretti a condividere la casa con altre 4-5 persone.
L’apice è arrivato il 29 marzo, quando un ragazzo italiano di soli 19 anni è morto a causa del coronavirus, dopo non aver ricevuto nessun tipo di cure dal servizio sanitario. Da lì in poi è stato tutto un’escalation. Prima Johnson che risulta positivo al virus, il che ha del tragicomico visto la sua dichiarazione sull’immunità di gregge di qualche settimana prima. Poi lo stesso Johnson che per accertamenti viene trasferito in terapia intensiva.
Mentre noi italiani abbiamo continuato a vivere questa situazione con tanti perché e poche risposte.

Pochi mesi prima avevamo assistito da spettatori all’uscita del Regno Unito dall’Europa. La Brexit ci ha riportati tutti alla realtà dal nostro mondo di sogni: forse Londra non è più il paradiso a cui eravamo abituati. Forse qualcosa cambierà per noi in futuro.
Troppi forse, poche certezze, e ora il coronavirus.

Non è facile capire cosa ci succederà, l’incertezza governativa, guidata da solite ragioni politiche, che in questo momento andrebbero omesse, non ci rassicura.
La gente sta già partendo, in molti stanno salutando Londra, è una selezione naturale inevitabile. Del resto chi non ha più un lavoro, nonostante il governo abbia stanziato aiuti ingenti per tutti coloro in cassa integrazione, ha deciso di fare dietro-front e tornare in Italia.
Noi che restiamo invece abbiamo una grande responsabilità, quella di crearci la nostra “immunità di gregge”.

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