Il caso Djokovic ha messo in campo appassionanti discussioni su politica estera, immigrazione e accoglienza, intrise a quelle su vaccini, emergenza da Covid-19 e restrizioni sanitarie in atto in Australia per preservare al massimo lo status quo del paese nei confronti di una pandemia che ancora non può definirsi endemica.
La maggior parte di noi ha scoperto solo ora che in Australia i lockdown sono stati molto più rigidi che in Europa (intere città chiuse per pochi casi, come riferisce il giornalista di SBS Dario Castaldo nell’intervista video a “Il Messaggero”), misure ben accette dalla popolazione che oggi, però, di fronte al privilegiato campione di tennis, da un lato soffre la linea preferenziale a lui riservata, dall’altro – in minoranza, specie quella serba – empatizza per il trattamento burocratico confuso riservatogli.
Tenendo ben a mente il contesto australiano in cui si svolgono i fatti, che ora han riflessi internazionali occupando da giorni i media mondiali, ragioniamo per un attimo su un aspetto parallelo, forse cinico: il “brand Novak Djokovic”, un impero che muove un giro di affari annuali da circa 96 milioni di dollari.
Come sta impattando tutta questa situazione sul campione e sui brand che ne hanno sposato valori, cause, messaggi chiave? L’argomento “sponsorizzare Djokovic”, ben approfondito da Riccardo Pirrone sul Sole24 ore, riguarda sì lo sponsorizzare il numero uno al mondo del tennis, campione rigoroso in grado di andare oltre ogni aspettativa sportiva dello scibile umano. Ma é anche sponsorizzare il personaggio, la personalità, i suoi valori, i suoi pensieri e le sue gesta.
Prenderne posizione, accanto. Seduti sempre sulla stessa panchina aspettando il perfetto slam.
Perché, come ricorda Pirrone, oggi i brand stessi (Lacoste, Head, Asics, Pegeout ma anche tutti i centinaia di eventi di cui il campione è sponsor o al quale è invitato) vengono “umanizzati” dai propri consumatori che chiedono coerenza nei comportamenti e nelle decisioni.
Insomma, è definitivamente finita l’era del “washing”, sia green/pink/causes/brand value -washing.
Il consumatore valuta, e giudica. Le azioni.
E proprio per questo le prime stime del Sole 24 Ore prevedono che la scelta no-vax di Djokovic possa mettere a repentaglio almeno 30 dei milioni annuali delle sponsorizzazioni.
Perché? Principalmente per il silenzio. Perché non c’è una presa di posizione.
Un caso similare si sta verificando negli Stati Uniti dove Nike, dopo una decisione dello scorso ottobre, licenzierà da oggi 15 gennaio ogni dipendente non vaccinato (a meno che non sia esente per motivi medici/religiosi). Essendo una azienda privata lo può fare secondo la legislazione americana, ma non ha tenuto conto dei suoi atleti di punta, come Irving Kirie nel Basket. Irving, dichiarato no-vax e che quindi non gioca le partite nello stato di NY causa le leggi statali e ha problemi anche in NBA, é ancora sotto contratto della multinazionale.
È sempre più evidente come i valori del brand si stiano scontrando con alcuni dei suoi rappresentanti e vice-versa.
Il silenzio, il non prendere posizione chiara nei confronti delle “stars” ma solo dei più deboli della catena cercando di accaparrare in modo grottesco consensi dalla massa, non é una strategia vincente.
Lo stiamo vedendo con Djokovic, lo vedremo sempre più con Nike e in tutti gli altri settori toccati da queste scelte etiche e di valore. Brand value vs. reality check.
Foto in alto, profilo Facebook Novak Djokovic.