Possiamo stare tutti tranquilli: la Terra non si sta riscaldando, anzi, forse si sta rinfrescando un po’. E il climate change non è altro che una bufala montata dai cinesi per rallentare la produzione industriale americana.
Questa, in sintesi, la posizione del candidato presidenziale americano Donald Trump, poi in parte ritrattata come uno scherzo, ma mai ufficialmente smentita. E partendo da queste basi le conseguenze sono facilmente prevedibili, seppur paradossali.
A differenza di quanto accaduto in altre tornate elettorali, quando il prezzo del petrolio era alle stelle, il tema energetico non è oggi ai primi punti delle agende dei candidati e in particolare non è un tema in assoluto per Donald Trump, che oltre ad alcune affermazioni per lo più bizzarre, non si è mai premurato di formulare una politica energetica per il Paese, né è mai stato particolarmente sollecitato in tal senso dai suoi elettori. Dei 7 punti chiave che sintetizzano la sua posizione politica, nessuno riguarda clima ed energia. Ci sono però un muro e (ancora) armi da fuoco.
L’avversione di Trump per tutto ciò che è environmentally friendly è di lunga data. Dal 2013 il candidato repubblicano ha ingaggiato una battaglia legale contro un parco eolico in mare al largo di Aberdeen, in Scozia, colpevole a suo dire di deturpare la vista sul mare del lussuoso campo da golf che stava costruendo proprio lì. Dopo anni di dibattimenti, lo scorso dicembre la corte suprema del Regno Unito ha respinto ogni sua accusa, dando il via libera definitivo alla realizzazione dell’impianto off shore.
Benché si sia più volte dichiarato favorevole a qualunque forma di energia, i caveat che mette in campo ogni volta che si parla di rinnovabili sono di quelli importanti; una grande accusa che ad esempio Trump muove all’eolico, a torto considerato insieme al solare una fonte costosissima di generazione elettrica, è quella di essere colpevole dell’uccisione ogni anno di centinaia di aquile, reato questo molto grave negli Stati Uniti (“you know, if you shoot an eagle, kill an eagle, they want to put you in jail for five years. Yet the windmills are killing hundreds and hundreds of eagles”). Ma basta entrare un po’ nei dati per cogliere la pretestuosità dell’affermazione: secondo un recente articolo del Washington Post le aquile uccise in un quindicennio dalle pale eoliche sarebbero solo 85, su un totale di qualche centinaio di migliaio di uccelli finiti in rotta di collisione con gli impianti ogni anno. Molti di più invece gli uccelli uccisi dai vetri dei grattacieli, in media 24 all’anno per ogni edificio, secondo alcune stime un totale di quasi un milione di volatili ogni anno. A proposito: Trump costruisce grattacieli.
Con queste premesse è facile intuire come l’adesione degli Stati Uniti all’Accordo di Parigi del dicembre 2015 sia tutt’altro che scontata. L’accordo siglato al COP21, secondo il quale gli stati aderenti si sono impegnati a mettere in atto una serie di misure necessarie per contenere l’aumento delle temperature rispetto ai livelli pre-industriali sotto la soglia dei 2°C, prevede l’impossibilità per uno stato di ritirarsi prima che siano trascorsi 4 anni, rendendo così impossibile a Trump un’uscita dalla porta laterale. Tuttavia la maggioranza Repubblicana al Congresso ha di fatto impedito a Obama di imporre per via legislativa un piano che prevede un importante taglio di emissioni (-32% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005) per gli impianti più inquinanti – fondamentale per dare efficacia agli accordi presi a Parigi –, consentendogli di agire solo per via regolamentare (executive order), lasciando così aperta la strada a ricorsi e controricorsi. Inutile dire che questi sono puntualmente arrivati ed ora la questione è nelle mani della Corte Suprema, su cui il futuro 45° presidente americano avrà un gran potere legato alla nomina del seggio rimasto vacante dopo la morte del giudice Scalia che ha lasciato la Corte con 4 giudici di posizioni simili a quelle democratiche e 4 di pensiero filo-repubblicano. Inoltre, anche se la Corte Suprema appoggiasse il piano di Obama, il nuovo presidente, forte di un congresso del suo stesso colore, potrebbe di fatto rendere molto difficoltosa l’esecuzione del piano di Obama.
Tra le altre affermazioni di Trump in materia di energia e clima possiamo poi annoverare una generica simpatia verso il fracking, importante alleato nella riduzione della dipendenza energetica degli Stati Uniti dal Medio Oriente; lo smantellamento o il forte ridimensionamento dell’Epa (Environmental protection agency), organo chiave nella politica democratica per la tutela del clima; l’introduzione di ulteriori pesanti dazi all’importazione di componenti cinesi per il mercato fotovoltaico, oggi indispensabile per lo sviluppo del mercato solare negli Stati Uniti.
In sostanza, in tutta probabilità l’elezione di Donald Trump porterebbe al fallimento dell’intero accordo della COP 21. Gli Stati Uniti da soli nel 2015 sono stati responsabili di oltre il 16% delle emissioni globali di CO2, secondi solo alla Cina, e sull’accordo tra America e Cina in materia energetica si è basato l’intero COP21 e l’agreement successivamente siglato a livello mondiale; altri paesi, anche più economicamente deboli degli USA, potrebbero inoltre trovare un alibi per sottrarsi agli impegni presi. L’accordo di Parigi, che oggi è stato ratificato tra i grandi emettitori solo dalla Francia, è seriamente a rischio e con esso, forse, la possibilità di scongiurare quell’aumento di temperatura di 2°C che ci condannerà a un mondo diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi.
Articolo scritto in collaborazione con Chiara Rejna