Donne, media e società

Donne e famiglia. Donne e lavoro. Donne e violenza. Donne e istituzioni. Donne e religione. Donne e uomini. Donne e donne. Spesso affrontiamo la questione femminile a compartimenti stagni, dimenticandoci che, in realtà, una sfera influenza l’altra e tutte concorrono a formare ciò che definiamo società. E i media, che sono lo specchio della società, che immagine ci restituiscono delle donne e della parità di genere? Possono favorire il cambiamento? Ne abbiamo parlato con Rita Querzè, giornalista per il Corriere della Sera e scrittrice, che ha appena pubblicato il libro. Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse

Nel libro afferma spesso che la vera parità si raggiungerà solo con un cambio culturale che coinvolge tutta la società (famiglia, lavoro, istituzioni). Che ruolo hanno i media in questo processo?

«È un argomento davvero complesso. E prima di rispondere credo sia doveroso fare due precisazioni. Innanzitutto, è bene ricordare che i media sono figli del proprio tempo: rappresentano la società, con i suoi equilibri di potere, economici e sociali. Poi dobbiamo chiederci: di quali media stiamo parlando? Perché ormai dobbiamo considerare anche i social, che hanno logiche di funzionamento e “performatività” completamente diverse da quelle dei media tradizionali, come la tv generalista o i quotidiani. L’aspetto negativo dei social è che lì si perde il ruolo dell’intermediario».

In che senso?

«Intendo dire che tutti comunicano allo stesso livello: il giornalista, che approfondisce i fatti e poi li spiega a chi non ha tempo o modo di farlo indipendentemente, ma anche una persona qualunque che non ha l’esperienza o le capacità di un comunicatore professionista. Certo, bisogna sempre considerare da quale pulpito viene la predica, ma in questi nuovi media, sicuramente ricchissimi di spunti e stimoli, manca la visione d’insieme, la capacità di unire i puntini, che è proprio il compito del giornalismo. Ecco, credo che i media dovrebbero tornare a esercitare questo ruolo: cercare di spiegare, far capire le cose, presentando in modo chiaro pensieri complessi, essendo trasparenti su dati e fonti, senza cercare di suggestionare gli interlocutori».

Tornando al focus, cioè alla parità di genere, pensa che potrebbero fare meglio?

«Sì, proprio tornando a esercitare quel ruolo di intermediatori: facendo cultura sul tema, indagando il fenomeno e non correndogli dietro. E anche guardando al “politicamente scorretto”. Di facciata sono tutti grandi sostenitori della parità, dell’inclusione, della diversity, ma è evidente che non è così, altrimenti vivremmo in una società profondamente diversa. Ecco, trovo molto più interessante cercare di capire chi sostiene lo squilibrio di genere provando a intavolare un discorso concreto, anziché raccontarci quanto siamo tutti (fintamente) equi e buoni: la retorica ci impedisce di andare al cuore della questione e di affrontare veramente il problema».

Parlare di retorica e politicamente corretto mi fa pensare al pink-washing…

«Che non è inutile, ma proprio dannoso: è la risposta del sistema a chi cerca di cambiare le cose. Il pink-washing fa sentire le donne accolte, ascoltate, ma in realtà spegne tutti i fuochi, annega tutte le istanze, riporta la discussione ai margini con interventi minimali, spacciati invece per cambiamenti sostanziali. E invece alle donne dobbiamo dare il giusto spazio, soprattutto con i fatti. E questo vale anche per i media perché, quando vai a indagare il divario retributivo o chi ricopre le posizioni apicali di carriera, il pink-washing lo trovi anche lì. Voglio dire: le donne nei media ci sono, ma un conto è fare la signorina buonasera, un conto è dirigere un giornale o condurre una trasmissione».

Spesso si afferma la necessità di “portare le istanze femministe fuori dai circoli letterari, abbassando il livello del discorso”. Come fare?

«È sicuramente necessario uno sforzo sul linguaggio: non deve diminuire la complessità, ma allo stesso tempo deve essere fruibile e rendere trasparente il messaggio; gli esempi possono aiutare. E poi facendo attenzione alle tematiche su cui porre l’attenzione, che devono essere collettive. Negli ultimi trent’anni ci siamo concentrate sui temi della violenza (sacrosanto!), ma soprattutto della carriera, pensando ingenuamente che bastasse far salire un po’ di donne ai vertici perché poi queste aprissero le porte della città (le aziende, il pubblico, le istituzioni) alle altre. Ecco, mi sembra evidente che questo approccio non ha funzionato, ma non mi stupisce: se vuoi cambiare le cose devi rivolgerti alla collettività, non a un’élite: a tutte le donne, non alle donne in carriera».

Agli uomini no?

«Ma certo, anche agli uomini! Perché qui non si tratta di passare dalla società patriarcale alla società matriarcale, ma a una società equa ed equilibrata. È chiaro che noi donne abbiamo più interesse a fare questo salto, perché abbiamo più da guadagnarci. Ma tutti stiamo meglio in una società più equa».

Con l’esperienza che ha oggi, cosa consiglierebbe a una giovane donna per raggiungere i propri obiettivi personali e professionali?

«Il primo, che mi do anch’io, è di essere tolleranti con noi stesse: vogliamo essere sempre così perfette, così performanti, invece ci fa bene riconoscere i nostri limiti. Ci aiuta anche a chiedere una mano a chi ci sta intorno. Gli uomini riescono ad essere molto più indulgenti nei propri confronti. Poi, e l’ho scoperto invecchiando, sentirsi libere. Di esprimerci e di essere noi stesse, senza dover aderire a cliché o stereotipi di genere»

Quali libri o film consiglierebbe a chi desidera avvicinarsi ai discorsi femministi?

«Sicuramente L’ascesa del femminismo neoliberista di Catherine Rottenberg, dove l’autrice indaga come la questione femminile abbia assunto una dimensione individualista: è tutto sulle spalle della singola donna, che deve fare carriera, fare figli, “educare” il compagno alla collaborazione domestica, curarsi di sé… e quando non ci riesce si giudica in modo negativo perché non sa stare al passo di “quelle brave”. Poi We want sex, un film del 2010 che racconta di come le donne della Ford ottennero la parità retributiva nella Gran Bretagna degli anni 60. Da ultimo, La peste di Albert Camus. Non parla di femminismo, ma affronta un argomento trasversale a molte questioni: è il tema della responsabilità, dell’essere nelle cose, affrontandole con coinvolgimento, senza superficialità e facendocene carico. Proprio come dovremmo fare con la parità».

rita querzédonne e lavoro rita querzé

 

 

 

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