L’articolo 1 della Costituzione italiana recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. È ancora vera questa perentoria affermazione? La risposta non può che essere negativa, per vari motivi che desidero illustrarvi. Procederò per punti.
1 – Questione di compromessi
In primo luogo, per prenderla un po’ alla lontana, è profondamente cambiato il quadro culturale e politico che portò nel 1947 (settant’anni fa) al “compromesso alto” che fu alla base della messa a punto e dell’approvazione della legge fondamentale del nostro Stato. Essa, com’è noto, nacque dall’esigenza, condivisa dai maggiori partiti di allora, di chiudere la fase post-bellica con una nuova tavola dei valori – delineata nella prima parte (quella cosiddetta programmatica) della Costituzione – e con nuove regole di funzionamento della democrazia postfascista, identificando un basamento comune, fatto di ideali e procedure, della nuova Italia nata dalla Resistenza. Si trattò di uno sforzo straordinario per intensità politica, qualità morale, cultura, competenza tecnica: uno sforzo mai più ripetuto, ancora più rilevante in quanto fu capace di raggiungere l’obiettivo malgrado nel frattempo si fosse rotta l’unità tra le grandi forze rappresentate nell’Assemblea Costituente dopo il fatidico viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, l’estromissione dal governo dei socialisti e dei comunisti, l’applicazione anche da noi della logica di quella che sarebbe stata definita la Guerra Fredda.
Il progetto fu salvato, il che consentì al Paese di godere dei frutti della fattiva collaborazione di tre grandi tradizioni: quella democristiana, quella social-comunista, quella liberale (in senso stretto col PLI e in senso liberal/radical con il Partito d’Azione). Ciascuna di esse apportò diverse sensibilità e rappresentanza di interessi, con mediazioni non mediocri (non cioè quelle che oggi definiamo “compromesso” in senso spregiativo) ma appunto “alte” (quelle che evocano l’etimologia e il significato positivo di un’intesa basata su “promesse condivise” ovvero con-promesse).
Tutto ciò, inutile sottolinearlo, non ha nulla in comune col tempo presente, nel quale le citate tre macroculture politiche sono semi-scomparse, la qualità della politica e dei leader si è straordinariamente abbassata, la rappresentanza degli interessi sociali appare assai indebolita, le promesse in gran parte sono state deluse.
2 – Il lavoro al centro
L’idea di una repubblica “fondata sul lavoro” fu – dopo la metà degli anni 40 – fortemente sostenuta dalle sinistre rosse (inclusi i socialdemocratici di Saragat), sia per la forza del marxismo sia per l’effettiva capacità del PCI e del PSI di farsi portavoce del proletariato industriale, concentrato al Nord, così come dei salariati agricoli (i braccianti) e anche dei mezzadri nelle regioni centrali. Ma, seppur con diffuse resistenze, trovò consenzienti molti azionisti (impregnati della cultura di Gobetti) e la stessa DC, rifacentesi alla dottrina sociale della Chiesa e rappresentante di una frazione minoritaria della classe operaia (si pensi a quel che saranno la CISL e le ACLI) e di gran parte del mondo contadino (a partire dalla Coldiretti).
Dunque, il basare il nuovo Stato sul lavoro e sui lavoratori fu una scelta unitaria, in esplicita polemica con l’aspro classismo castale delle classi dirigenti post-unitarie, col peso esorbitante della rendita (agricola, immobiliare, finanziaria, monopolistica ecc.), col rigetto del suffragio universale (solo in quegli anni introdotto con l’apertura del voto alle donne). Certo, certa sinistra era legata a una prospettiva “sovietista”, ma la mediazione voluta e guidata dal trio Togliatti-Nenni-Dossetti sottrasse la centralità del lavoro a ogni sua declinazione “stalinista”, limitando il tutto alla democrazia progressiva fondata sul sostegno delle masse in un contesto occidentale.
E qui il “compromesso alto” si è dimostrato fecondo, stabilizzando il Paese e consentendogli un grande sviluppo economico e sociale, compresi taluni periodi di significativa redistribuzione a favore dei lavoratori dipendenti.
3 – L’apporto della dirigenza
I successivi settant’anni sono stati prevalentemente caratterizzati dalla vittoria dei profitti sui redditi da lavoro, sempre con un peso soffocante delle rendite improduttive. Ma molti contrappesi sono stati attivati per più fattori: il peso dei sindacati, l’azione della politica d’opposizione e talora di governo, le stesse esigenze di estendere il mercato interno delle imprese e di mantenere ampia la base sociale di consenso alle istituzioni eccetera. Col risultato che il lavoro, la sua dignità, i suoi interessi, per certi versi i suoi valori, nel corso di vari decenni non hanno davvero perso, pur non affermandosi come esclusivi.
Tutto ciò è avvenuto anche grazie al contributo di molti dirigenti, in particolare dell’industria e dei servizi (meno del settore primario e di quello burocratico): non pochi di essi sono riusciti a convincere gli imprenditori (raramente illuminati) ad assumere politiche retributive e di valorizzazione delle risorse umane aperte e di lungo periodo. Nel mentre – prima della loro degenerazione improduttiva e clientelare – anche le Partecipazioni statali hanno collaborato alla crescita (pure al Sud) grazie all’impegno di manager competenti e lungimiranti, oggi ingiustamente dimenticati.
4 – Verso la crisi
A un certo punto, però, il meccanismo – fondato anche sul lavoro – si è prima inceppato e poi rotto, con conseguenze drammatiche che viviamo ancora oggi: quella che qualcuno ha definito “the new golden age” dell’Occidente è terminata. Dalla crescita accelerata del Pil, dei profitti non finanziari, dei redditi e dei consumi familiari, del welfare, della stessa democrazia consensuale, del conflitto come matrice di sviluppo eccetera si è passati alla crescita rallentata e poi alla stagnazione, al boom dei profitti finanziari, alla perdita di peso – prima relativa e poi assoluta – del lavoro, alla diminuzione del tenore di vita (specie della large middle class), alla riduzione del welfare, alla delegittimazione della politica e delle istituzioni, al calo o al crollo delle organizzazioni di massa, alla demonizzazione del conflitto sociale e così via. Di più: in senso anti-labour hanno giocato – seppure in modi assai variegati – la cosiddetta globalizzazione, il trionfo dell’Asia e in particolare della Cina, l’involuzione degli Usa, la finanziarizzazione dell’economia, l’affermarsi della cultura neo-liberista, l’estendersi delle disuguaglianze, la rivoluzione digitale, le ondate migratorie, la debolezza dell’Europa, l’infragilimento degli stati nazionali, la crisi morale delle élite e delle popolazioni, il diffuso senso di incertezza, la perdita dell’ottimismo, l’emergere di culture populiste non dissimili da quelle che portarono dopo la Prima guerra mondiale al trionfo dei fascismi.
In Italia, paese debole nel contesto continentale, la crisi è risultata più grave che altrove, malgrado talune eccellenze. Le variabili nostrane che hanno aggravato il quadro non sono difficili da ricordare: il peso della grande criminalità organizzata, la corruzione pervasiva e dilagante, il deficit di cultura progettuale, la decadenza del sistema politico e istituzionale, l’iper-produzione normativa con leggi confuse e carenti, la scarsa efficienza della pubblica amministrazione, la marginalizzazione della scuola pubblica, gli infimi investimenti (pubblici e spesso privati) in ricerca e sviluppo, oltre che in formazione di base e continua, le distorsioni del sistema bancario, il frequente arroccamento dei sindacati, le miserie di un capitalismo senza visione e – quel che è paradossale – senza capitali, il decadimento morale con eclissi del senso di responsabilità personale e collettivo, la persistente sotto-valorizzazione delle donne eccetera.
Non sorprende che l’Italia sia strozzata da più di due decenni dal mix perverso di un elevato debito pubblico, di una bassa produttività, di una carenza di fiducia in sé e nel proprio potenziale. Ed è scontato che la rilevanza del lavoro sia stata messa in discussione e poi affossata. Come? Con l’incremento della disoccupazione manifesta e occulta (quella di chi il lavoro non lo cerca neppure); con la riduzione dei salari e degli stipendi, prima reale e quindi persino nominale; col boom dei contratti non tradizionali, tutti basati sulla precarizzazione, su orari e redditi ridotti, su tutele assenti o limitatissime; con la persistenza del “nero” e dunque dell’evasione fiscale e contributiva; con la rinuncia alla formazione, alla valorizzazione, alla motivazione delle lavoratrici e dei lavoratori; talora col ritorno a forme pre-moderne di sfruttamento, caporalato, schiavismo (anche in versione digitale).
In senso opposto si sono mosse aree, settori, singole imprese. Ma un dato merita di essere citato: solo un terzo della forza-lavoro è incluso in realtà virtuose, in vario modo tutelanti e valorizzanti i lavoratori. Con un’aggiunta rilevantissima: le organizzazioni produttive che utilizzano almeno un manager vedono la suddetta percentuale salire al 62%.
In effetti, i dirigenti e i quadri (inclusi molti professional) in parte hanno sofferto sulla propria pelle la svalorizzazione del lavoro, anche elevato: licenziamenti, pre-pensionamenti, riduzioni di redditi e di opportunità, obblighi di attuazione di strategie anti-lavoro, mortificazioni professionali e umane. Ma in generale si sono battuti sia per la tutela dei propri interessi sia per l’addolcimento delle politiche più dure, sia per la difesa di un modello inclusivo di impresa (si pensi all’attività di tanti responsabili delle risorse umane: appunto, risorse e umane…). Talché, se possiamo guardare non cupamente al futuro, lo dobbiamo anche a molti manager e quadri, silenziosi testimoni del valore del lavoro, proprio e altrui.
5 – Rivalorizziamo il lavoro
Ma il contributo meritorio dei manager e dei quadri non ha potuto modificare a fondo le caratteristiche di gran parte del nostro capitalismo: quello privo di gusto del rischio imprenditoriale, desideroso di protezione, poco capace di investire e di innovare, dipendente dal sistema bancario, utilizzante la rivoluzione tecnologica in ritardo e col fine di ridurre i costi del lavoro e non per accrescere la produttività, incapace di considerare gli addetti come risorse e non solo come costi. L’esito non poteva che essere il mix di cui si è detto. Né il futuro si presenta roseo, dal momento che la nostra crisi politica e ormai anche istituzionale non lascia presagire niente di buono, l’inadeguatezza dell’Europa non aiuta, il neo-protezionismo americano ci penalizzerà, il diffondersi dei robot e dell’IA distruggerà più posti di lavoro di quanti ne creerà.
Da tale passaggio epocale potremo certo uscire “in avanti”, né ha senso avvolgersi in un pessimismo cosmico e paralizzante. Ma appare sensato preoccuparsi per la particolare fragilità del Bel Paese, per cui un forte impegno sarà richiesto a tutti coloro che credono che ogni reale sviluppo richieda tensione progettuale, capacità gestionali, cittadini e in particolare lavoratori sereni e motivati, rivalorizzazione del lavoro.