Nei giorni scorsi è stato diffuso dalla World Meteorological Organization un dato che ha suscitato scalpore: la concentrazione di CO2 in atmosfera ha fatto registrare un nuovo record, 403 ppm nel 2016, 3 ppm in più dell’anno precedente. E i dati mensili del NOAA dicono che anche per il 2017 è previsto un nuovo picco.
L’ultima volta che la Terra ha fatto esperienza di concentrazioni di CO2 così elevate risale al Pliocene, circa 3-5 milioni di anni fa. La temperatura era 2-3°C superiore e il livello dei mari era 10-20 m più alto di oggi.
Ma questo è davvero un dato così sconvolgente? Cosa significa concretamente?
Di sicuro costituisce un segnale importante del fatto che le misure intraprese per ridurre le emissioni sono tuttora inefficaci, ma non è un dato catastrofico né inatteso. Vediamo perché.
Intanto va detto che i motivi alla base di questo ulteriore aumento sono riconducibili da un lato ad azioni umane (i.e. combustione di combustibili fossili) e dall’altro a El Nino 2015/2016, particolarmente importante nei suoi effetti e che intensificando la siccità ha ridotto la capacità delle piante di assorbire CO2. L’”effetto Trump” non è ancora in questi dati e, se ci sarà, si potrà valutare negli anni a venire.
Soprattutto questo aumento si inserisce in un percorso di crescita di lungo periodo, dove la concentrazione di CO2 è costantemente cresciuta negli ultimi anni, da quando si è iniziato a misurarla sistematicamente.
Fig. 1 – Concentrazione globale media annua di CO2 1960-2016
Fonte: WMO World Meteorological Organization
Fig. 2 – Concentrazione globale media mensile di CO2 2013-2017
Fonte: NOAA
NOTA: la linea rossa rappresenta i valori medi mensili, la linea nera presenta gli stessi valori corretti per la media dei cicli stagionali
Ciò che sta cambiando invece è la dimensione dell’aumento: da una media di 0,7ppm negli anni 60 a 2ppm negli ultimi 10 anni fino ai 3 ppm nel 2016.
Come impatta questo sugli impegni presi a Parigi a fine 2015? Cosa aveva stabilito l’accordo sottoscritto da gran parte del mondo? I paesi firmatari si sono impegnati a mantenere l’incremento di temperatura entro i +2°C rispetto al periodo pre-industriale (con un’aspirazione a +1,5°C che è subito sembrata un’utopia). In termini concreti, questo si traduce nella necessità di limitare le emissioni di CO2 in questo secolo a “soli” 800 miliardi di tonnellate, quantità raggiungibile in poco più di 20 anni al tasso di emissione attuale . Un altro grande impegno, per quanto vago e discrezionale, è quello di “raggiungere il picco globale di emissioni di gas ad effetto serra al più presto possibile”. Inoltre, come discusso ampiamente su The Economist, la possibilità di raggiungere gli obiettivi di Parigi è legata alle “emissioni negative”, cioè alla capacità di ridurre la CO2 esistente o con forestazioni massicce o con tecnologie da sviluppare per ridurre la CO2 dall’atmosfera.
Va da sé che qualunque aumento della concentrazione di CO2, benché non sia l’unico parametro da tenere in considerazione per valutare se gli sforzi messi in campo dai paesi firmatari stiano o meno portando i frutti sperati nella direzione di centrare l’obiettivo di contenimento dell’aumento di temperatura concordato, è un ostacolo più o meno grande al raggiungimento dell’obiettivo fissato.
Fig 4: Emissioni globali di CO2 2000-2017
Fonte: Global Carbon Budget 2017
Fig. 5 – Tempo di smaltimento e quota nella composizione
Fonte: Stern Review. The Economics of Climate Change
La situazione è complessa: da un lato la concentrazione in atmosfera di CO2 continua ad aumentare, e se continuerà a farlo al tasso del 2016 (+3 ppm) raggiungeremo velocemente il valore di 450 ppm, la soglia associata al temibile aumento della temperatura di 2°C, già nei prossimi 15-20 anni. Diversamente un rallentamento della crescita a +2 ppm/anno o addirittura +1 ppm/anno allontanerebbe sensibilmente il raggiungimento del tetto dei 450 ppm.
Dall’altro lato va rilevato che la concentrazione di CO2 ha continuato a crescere nonostante da 3 anni le emissioni si siano stabilizzate a un valore annuo di 36 Gtons (altre fonti danno valori leggermente diversi, IEA 32 Gtons, BP 33 Gtons, ma concordano sulla stabilità delle emissioni negli ultimi 3 anni), grazie anche e soprattutto al rallentamento dell’economia cinese e del suo utilizzo di carbone. Questo perché la CO2 e ancor più gli altri gas ad effetto climalterante necessitano di tempi molto lunghi e non omogenei per essere smaltiti dall’atmosfera.
Purtroppo sembra già che per il 2017 le emissioni della Cina siano nuovamente in crescita, con il risultato di un aumento mondiale previsto del 2%, secondo un nuovo report del Global Carbon Project (consorzio internazionale di ricerca istituito nel 2011 allo scopo di quantificare le emissioni globali di CO2 e di capirne le cause) presentato in occasione della COP23 a Bonn.
Le scelte a nostra disposizione sono limitate: dobbiamo riuscire a ridurre davvero (se non ad azzerare!) le emissioni e considerare seriamente le alternative per avere “emissioni negative”.