La salute è necessaria, anche per l’economia

Una visione multidisciplinare e approfondita sulle politiche sanitarie, la formazione, il technology assessment e il supporto manageriale rispetto all’impatto della pandemia e all’evoluzione del Servizio sanitario nazionale

Partiamo da una premessa: siamo ancora in fase pandemica; e non essendo ancora del tutto usciti dall’emergenza registriamo politiche sanitarie per lo più “reattive”, mentre il “resto” del sistema sanitario vive una sorta di stasi, in attesa della fine della pandemia. Sebbene non disponiamo ancora di dati sufficienti per capire esattamente quali saranno i cambiamenti portati dalla pandemia, e tanto meno per valutare la loro persistenza, su un punto osserviamo una crescente attenzione: quello del finanziamento della Sanità.

Gli ultimi dieci anni
Il punto è rilevante, e vale la pena di osservare che il Ssn è arrivato ad affrontare la pandemia dopo un decennio caratterizzato da alcuni significativi trend. Il primo è la decrescita della quota pubblica nel finanziamento della sanità: se fino alla crisi finanziaria del 2009 l’Italia aveva una quota di finanziamento pubblico simile a quella degli altri paesi dell’Europa occidentale, negli anni successivi gli altri partner Ue hanno registrato una tenuta o un leggero aumento della quota, che da noi si è invece drasticamente ridotta. Oggi registriamo una quota di finanziamento pubblico allineata a quella dei paesi dell’est Europa.

Le ragioni di tali andamenti sono attribuibili al fatto che il nostro è un Paese con alto debito pubblico e crescita praticamente nulla, nel quale le politiche economiche hanno assunto come priorità quella del ripiano delle finanze pubbliche, e a seguire la crescita, sacrificando (almeno in parte) il welfare.

Il trend del finanziamento si riflette sulla spesa sanitaria: quella pubblica è inferiore di circa il 40% rispetto a quella degli altri paesi europei e quella privata è inferiore del 10%.

Complessivamente, questi andamenti hanno permesso di colmare i disavanzi, che dai 7-8 miliardi dell’inizio degli anni duemila sono scesi a un livello intorno al miliardo, ovvero meno dell’1% del finanziamento totale, che può essere considerato un sostanziale equilibrio finanziario, sebbene sconti i quasi 5 miliardi derivanti dalle varie forme di compartecipazione alla spesa sanitaria pubblica, che gravano sui cittadini.

L’impatto del Covid
La pandemia si è innestata su questi andamenti, facendo rapidamente maturare nuove consapevolezze: la prima è quella dell’opportunità, o necessità, di rifinanziare il Ssn e rivedere le politiche di efficientamento.

Lo sforzo, ad esempio, per ridurre il tasso di ospedalizzazione – oggi tra i più bassi in Europa – e raggiungere livelli di occupazione dei letti molto vicini al 100%, si è rivelato un errore che ha generato un forte stress sul sistema ospedaliero nella fase emergenziale. A livello territoriale le performance sono state a macchia di leopardo: le farmacie, ad esempio, hanno sicuramente reagito molto meglio rispetto alla medicina generale, che ha arrancato, per molte ragioni.

Una delle conseguenze più gravi della pandemia è stata il blocco delle prestazioni non Covid, ovvero le ritardate o mancate diagnosi, i ritardi dei controlli, i cui danni sono ancora non quantificabili.

Gestione dell’emergenza
Un ulteriore effetto provocato della pandemia, di cui non si parla abbastanza, è la “gestione dell’emergenza in deroga”: infatti, per poter rispondere alle sfide della pandemia in tempi congrui, si è optato per assunzioni “in deroga”, appalti “in deroga” ecc., dimostrando nei fatti che, con le regole delle amministrazioni pubbliche, il sistema non è in grado di funzionare adeguatamente.

Sugli effetti a livello regionale, ovvero sulle diverse performance regionali, non bisogna invece trarre conclusioni affrettate: è facile criticare (come qualcuno ha fatto) la Lombardia, ma è anche vero che questa regione è stata la prima e anche la più colpita. Le altre regioni hanno avuto molto più tempo per prepararsi e hanno comunque registrato tassi di contagio molto più bassi.

Sul tema del regionalismo, la pandemia ha anche fatto molto discutere in tema di rapporto fra “centro e periferia” e sui potenziali conflitti di attribuzione: in realtà le regole ci sono e sono sufficientemente chiare.

Ad esempio, sembra indiscutibile che le regole sulla gestione dell’emergenza, quali le quarantene, debbano essere nazionali; di contro che l’organizzazione degli hub vaccinali debba essere delle regioni. Il contrasto fra regioni e governo centrale, additato giornalisticamente come un punto critico, è stato in realtà esagerato, in funzione di un gioco delle parti fra schieramenti politici: a una lettura oggettiva non sembra, però, essersi dimostrato un elemento veramente critico o la ragione primaria di alcuni fallimenti nelle risposte alla pandemia.

L’inerzia del Ssn
Sembra invece evidente che la “non conoscenza” del fenomeno sia la vera fonte della grande confusione che in alcune fasi si è generata: d’altra parte la pandemia ha preso alla sprovvista davvero tutti e, in confronto con le performance osservate a livello internazionale, quelle italiane non sono certamente peggiori, anzi, qualche volta persino migliori.

Ovviamente, con il passare dei mesi alcuni ritardi nelle risposte o alcune smagliature organizzative risultano sempre meno giustificabili; ma, a ben vedere, sono estrinsecazioni delle tipiche pecche del nostro sistema sanitario nazionale: soprattutto un’organizzazione poco attenta ai reali bisogni della domanda.

Ad esempio, oggi il mantra maggiormente ricorrente è quello per cui bisogna potenziare il territorio, mancato alla “chiamata dell’emergenza”. Il sospetto è, però, che il territorio potesse in realtà fare ben poco in assenza di terapie efficaci; in ogni caso la domanda da porsi è perché, malgrado la legge Balduzzi abbia quasi 10 anni, nulla o poco è stato sinora fatto nel potenziamento del territorio.

Le sfide del futuro
Per tornare a provare a immaginare come sarà il futuro del Ssn nel post-Covid possiamo ripartire dalla consapevolezza o, quanto meno, dalla diffusa volontà di rifinanziare il settore sanitario. Un atteggiamento forse supportato dal fatto che arriveranno ingenti risorse europee.

Per anni ha prevalso la volontà politica di contenere in tutti i modi la spesa, assumendo (assiomaticamente) che le risorse assegnate fossero sufficienti, in quanto il Ssn era segnato da un’eliminabile inefficienza. Oggi prevale, altrettanto assiomaticamente, l’idea che le risorse non siano sufficienti, e quindi l’auspicio di un aumento della spesa. L’unica cosa certa è che il finanziamento della sanità è una scelta politica, che dipende da quello che si vuole fare, ovvero dalle priorità.

Da questo punto di vista, per il futuro i giochi sembrano fatti, con l’allocazione delle risorse previste dalla missione 6 del Pnnr (Sanità).

Approfondendo i contenuti del Piano, emerge però che non tutto è chiaramente definito. Quale modello di territorio si vuole davvero realizzare? Che ruolo è previsto per la digitalizzazione di cui tanto si parla, ma con idee assolutamente difformi? E soprattutto: come si pensa di riformare le “regole del gioco”? In altri termini, si vuole ritornare alle regole operative precedenti, in cui per fare un appalto o un’assunzione ci vogliono mediamente tre-quattro anni, o si pensa di rimanere “in deroga”? Non dobbiamo dimenticare che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha un orizzonte temporale limitato: gli investimenti vanno fatti entro cinque anni, vincolo che con le regole attuali sarebbe un obiettivo molto difficile da raggiungere.

Flessibilità e crescita
Con la pandemia si è altresì radicata la consapevolezza che la salute è necessaria anche per l’economia. Abbiamo capito, sulla nostra pelle, che se ci sono problemi sanitari si blocca tutto. Ma la soluzione ai problemi del Ssn non è nell’espansione senza limiti dell’offerta.

In Italia non possiamo puntare a raddoppiare il numero delle terapie intensive, per avvicinarci alla Germania. In altri termini, non possiamo permetterci un sistema sovradimensionato (ricordiamo che la Germania spende quasi l’80% in più di noi per il comparto). Dobbiamo piuttosto costruire un sistema flessibile che, in caso di nuove pandemie, possa rapidamente adattarsi e, ad esempio, essere in grado di allestire rapidamente un numero di terapie intensive adeguato alle necessità.

L’altro elemento chiave è il debito: ci attende una fase di investimenti, che però utilizzano risorse in larga misura a prestito; si genererà debito e, per ripagarlo, è necessario aumentare la produttività del sistema assistenziale. Ed è anche difficile che questo basti. Negli ultimi (almeno) 15 anni, abbiamo cercato di rientrare dal debito in assenza di crescita e questo si è dimostrato praticamente impossibile. Anzi, la riduzione degli investimenti, effetto dell’urgenza di ripianare il debito, ha minato le condizioni stesse della crescita.

Quindi è necessario che gli investimenti (anche) nella sanità, siano orientati a sostenere la crescita.Bisogna considerare la sanità non solo come una fonte di spesa da contenere o un servizio per la salute, ma anche come un motore di sviluppo economico.

Sanità, motore economico
In tema di crescita, non si può evitare di notare l’importanza della ricerca. E su questo tema il Paese continua ad essere in ritardo e a non investire abbastanza.

Ad esempio, anche nella corsa ai vaccini, per l’Italia si è configurata un’occasione persa. Pensiamo al fatto che i nuovi stabilimenti dove si produrranno i vaccini in Europa sono stati attivati in altri paesi (evidentemente più appetibili per le aziende farmaceutiche), i quali raccoglieranno benefici in termini di occupazione e innovazione.

Di contro, una parte dei finanziamenti del Pnrr rimane impegnata per completare progetti non sufficientemente finanziati in precedenza: basti pensare al rinnovamento delle attrezzature o al fascicolo sanitario elettronico. Certamente progetti opportuni, ma che è difficile definire davvero innovativi e forieri di crescita.

Quali investimenti?
Analogamente, si intravede il rischio che sia minata la produttività degli investimenti, in relazione al significato che si vuole dare alla “digitalizzazione” del sistema, che può essere intesa come automazione o come la base per la ridefinizione delle modalità di servizio.

“Smaterializzare” una ricetta è corretto, ma non cambia radicalmente il servizio. Per fare ciò, al Ssn serve che si operi un ripensamento delle modalità di servizio.

Anche gli investimenti in capitale umano sono carenti: e questo è particolarmente grave perché, per spendere bene i soldi, servono competenze adeguate, ma è ormai ampiamente condiviso che, nel middle management sanitario, si registri una carenza di competenze adeguate alle nuove sfide.

Gli errori del passato
Per fare un salto di qualità, è necessario si consolidi una visione efficace e condivisa del futuro Ssn, e su questa si innesti un’efficiente programmazione.

La storia del nostro Ssn insegna che la programmazione per normazione non funziona in un sistema complesso, che invece si governa ponendo gli adeguati incentivi al cambiamento.

Su quest’ultimo aspetto sono oggi corretti quelli capaci di coniugare efficienza tecnica ed efficienza allocativa: il sistema deve diventare più flessibile e previdente. Una frequente retorica ci disegna come “bravi a gestire l’emergenza”: certamente vero ma, se l’emergenza è frutto di una carenza di visione, che implica una gestione “alla giornata”, si genera un inutile costo umano ed economico.

Purtroppo, una vera “visione” non sembra ancora essersi consolidata. La creazione di nuovi posti di terapia intensiva, come anche in prospettiva di realizzare nuove case di comunità, non descrive ancora una compiuta riforma del Ssn.

Analogamente, rinnovare le attrezzature negli ospedali, o migliorarne l’edilizia, è utile, ma non certo definibile un “grande rinnovamento”.

Anche in tema di personale dobbiamo osservare che sono state fatte assunzioni (necessarie per le esigenze pandemiche), ma poco o nulla è stato ancora fatto per ridefinire i ruoli e le competenze del personale: ad esempio, riperimetrando i ruoli di medici e infermieri.

Domande senza risposta
Analogamente, per potenziare il territorio, dobbiamo dare risposte ad alcune domande chiave: che organizzazione si vuole adottare? Che ruolo si vuole dare ai distretti? Che compiti dare ai medici di medicina generale? Sebbene tutti siano d’accordo sul fine ultimo, la divisione diventa evidente sul metodo; ad esempio, un “partito” vorrebbe i medici di medicina generale dipendenti e un altro li vorrebbe autonomi e convenzionati.

Allo stesso modo, per rompere l’inerzia amministrativa dobbiamo strutturare le norme in deroga con cui abbiamo gestito la pandemia o, piuttosto, dobbiamo riformare il diritto amministrativo? L’amministrazione difensiva si combatte formando il personale o cambiando le norme?

Ospedale e territorio
Anche sul ruolo che si vuole attribuire all’ospedale rimangono questioni aperte. Ad esempio, si declina spesso l’obiettivo del territorio come quello di fare filtro rispetto all’ospedale. Ma questa è una falsa narrativa. Ormai in ospedale si fanno molti meno ricoveri e molta specialistica che, sebbene di II livello, è di fatto un’attività territoriale. In altri termini, continuare a pensare a ospedale e territorio come due entità separate, e alternative, è sbagliato. Piuttosto, ci vuole continuità, creando un modello integrato, “seamless”, capace di eliminare le soluzioni di continuità nei rapporti fra attori del sistema: fra pazienti e medici, fra clinici, e fra i precedenti e l’amministrazione del sistema.

Il clinico dell’ospedale e il medico di medicina generale devono collaborare mettendosi al servizio del paziente. E il paziente deve poter dialogare facilmente con loro ma anche con l’amministrazione: poter, ad esempio, pagare un ticket da casa, prenotarsi facilmente una visita o promuovere un teleconsulto.

Dovrebbero essere sviluppati sistemi che ci permettano di ricevere a casa i farmaci per le patologie croniche, capaci anche di verificare la nostra aderenza alle terapie.

In altri termini, la vera riforma, la vera modernizzazione del Ssn passa per la capacità di ridisegnare i servizi offerti. E questo è possibile solo con un modello “digitale nativo”. Sembra cosa banale, ma è una rivoluzione copernicana per la cultura dominante nel Ssn.

La sanità integrativa
In questa transizione verso il futuro del Ssn, la sanità integrativa e complementare può giocare un ruolo importante.

Data la sua funzione sussidiaria, il II pilastro può, per esempio, intercettare anticipatamente le nuove tendenze della domanda e contribuire a fornire risposte innovative, progettando nuove modalità di servizio.

Al governo del sistema serve creatività per intercettare e anche immaginare/predire le esigenze sanitarie della popolazione nel 2030.

Come il settore pubblico, anche la sanità integrativa/complementare deve maturare una compiuta visione del futuro dei bisogni della popolazione.

Se oggi l’offerta di maggior comfort e la rapidità di risposta sembrano da sole sufficienti a definire una “competenza distintiva” per il II pilastro, in prospettiva l’agone della competizione si sposterà sul tema della capacità di integrare e coordinare le risposte assistenziali ai bisogni del paziente e, in generale, della comunità in cui il paziente vive.

Questo implica, fra l’altro, una sempre maggiore integrazione degli aspetti sanitari e sociali. Integrazione quasi assente nella visione del Ssn che emerge dal Pnrr; di conseguenza si crea un enorme spazio di azione per i fondi: questi ultimi hanno, infatti, l’opportunità di “anticipare” il settore pubblico, integrando la propria azione e allargando il proprio ambito a tutti i servizi alla persona erogati in natura. Oggi non ha senso, ad esempio, parlare di assistenza domiciliare se prima non si sono create le condizioni per far mantenere alle persone una propria autosufficienza a domicilio, promuovendo, a titolo di esempio, le potenzialità insite nelle iniziative di housing sociale.

In altri termini, i prossimi anni, vuoi per gli investimenti programmati, vuoi per l’evoluzione tecnologica, saranno densi di cambiamenti: la sanità integrativa, come peraltro quella pubblica, sarà chiamata a interpretare questi cambiamenti e il proprio successo dipenderà dalla capacità di pensare servizi rispondenti ai nuovi bisogni emergenti. 

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