Previdenza pubblica e complementare

Pubblichiamo il secondo approfondimento sul tema generale della sussidiarietà. Questa volta rifletteremo su come possa essere diversamente sviluppato dallo Stato il rapporto tra previdenza pubblica e previdenza complementare, dando una corretta informazione sui rischi legati alla fine della carriera lavorativa e sulla possibilità per i cittadini di contrastare tali rischi attraverso un utilizzo migliore della previdenza integrativa

Gli schemi pensionistici pubblici basati sul sistema a ripartizione, ovvero sull’utilizzo dei contributi correnti per il pagamento delle pensioni in essere, saranno messi sotto pressione dalla crescente incidenza della popolazione anziana e perciò hanno bisogno di riforme volte a rafforzarne la sostenibilità. Tali riforme dovrebbero perseguire tre obiettivi:

1) contenere le future passività finanziarie del settore pubblico
2) incentivare il secondo pilastro del sistema previdenziale, fondato sul sistema a capitalizzazione e volto ad assicurare un più adeguato tasso di sostituzione, cioè un più adeguato rapporto tra reddito da pensione e reddito da lavoro
3) sostenere la crescita dei livelli produttivi e occupazionali.

Concentrare l’attenzione esclusivamente sulle future passività finanziarie – senza considerare gli effetti dello sviluppo economico – si rivelerebbe del tutto controproducente, dal momento che lo sviluppo è una condizione necessaria per il mantenimento degli equilibri di finanza pubblica. È fondamentale, quindi, che le riforme siano di vasta portata e che, in generale, siano orientate a rafforzare l’equilibrio attuariale dei sistemi di sicurezza sociale, ossia a realizzare un più stretto collegamento a livello individuale tra i contributi versati da un lato e i trasferimenti ricevuti dall’altro. Al contempo, è necessario porre un limite al livello complessivo delle contribuzioni obbligatorie, per permettere il consolidamento dei fondi pensione.

Occorre inoltre considerare che la segmentazione del mercato del lavoro, fortemente accentuata dalla diffusione delle nuove tecnologie Ict, rende spesso molto difficile la prosecuzione dell’attività lavorativa fino al compimento dell’età legale di pensionamento. Per cui è necessario prevedere una qualche forma di copertura retributiva per quei lavoratori che perdono il posto 5-10 anni prima del pensionamento, cioè a un’età in cui risulta molto problematico il ricollocamento.

Le prestazioni della previdenza pubblica legate al Pil
Prima di discutere di proposte è giusto ricordare che il legislatore del 1995, nell’introdurre per il calcolo della pensione il cosiddetto “sistema contributivo”, ha stabilito di legare la rivalutazione annuale del montante contributivo accumulato dal lavoratore all’andamento del Prodotto interno lordo (Pil) a prezzi correnti.

Il Pil ha effetto anche sui coefficienti di trasformazione del montante contributivo (cioè sui coefficienti adottati per trasformare il capitale accumulato in rendita pensionistica), i quali vengono ora adeguati con cadenza biennale. Per tale motivo, le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2021 avranno una quota contributiva più leggera, poiché la forbice dei coefficienti da quest’anno si riduce sensibilmente: dal 4,186% a 57 anni al 6,466% a 71 anni. Il taglio delle quote contributive oscilla tra lo 0,33% in corrispondenza dei 57 anni di età e lo 0,4767% per i 65 anni di età, fino ad arrivare a un taglio dello 0,7216% per chi accede alla pensione con 71 anni di età.

La variazione del Pil a prezzi correnti è quindi uno dei fattori che incide – assieme alla carriera lavorativa, all’entità dei contributi versati e all’età di pensionamento – sull’importo dell’assegno previdenziale pubblico.

Riteniamo fondamentale diversificare le risorse investite nella previdenza, tenendo anche conto che la previdenza complementare garantisce rendimenti mediamente più favorevoli rispetto al sistema pubblico. A sostegno di ciò, basti rilevare che, secondo le elaborazioni effettuate da Manageritalia su dati Istat e Covip, nel periodo 2010-2020 il tasso medio annuo di rivalutazione dei montanti della previdenza obbligatoria risulta pari all’1%, il tasso medio annuo di rivalutazione del Tfr risulta pari all’1,9% e il tasso medio annuo di rendimento dei fondi pensione risulta pari al 3,6%.



In ogni caso non vogliamo ridurre il ragionamento a una semplice valutazione dei rendimenti.

La molteplicità di prestazioni gestite dalle forme di previdenza complementare permette un utilizzo più flessibile ed efficace di tale strumento in base alle esigenze dei singoli iscritti. Per questo motivo, negli anni, la sua funzione – ovvero garantire una rendita integrativa della pensione pubblica – è quasi passata in secondo piano, poiché gli iscritti alle forme di previdenza complementare hanno anche la possibilità di utilizzare il loro risparmio per fare fronte a esigenze personali e familiari durante tutto l’arco della vita lavorativa, oppure possono anticipare il momento della quiescenza, facendo ricorso alla Rita (Rendita integrativa temporanea anticipata).

Poter contare sul maggiore risparmio derivante dalla destinazione dei contributi che sarebbero stati versati all’Inps in maniera meno produttiva renderebbe le prestazioni della previdenza complementare ancora più efficaci.

Il contributo della previdenza complementare
Trasferendo parte del finanziamento a un fondo complementare, l’esposizione del regime pensionistico complessivo ai rischi demografici si riduce in misura notevole: semplicemente perché il capitale umano, una risorsa sempre più scarsa con l’invecchiamento della popolazione, viene sostituito dal capitale reale, introducendo il sistema di calcolo a capitalizzazione.

I fondi pensione, cioè gli schemi assicurativi che provvedono alla gestione del risparmio collettivo a fini previdenziali, esistono in tutti i paesi più industrializzati, sebbene in molti di essi, come ad esempio in Italia, il loro peso è ancora troppo limitato per poter erogare una cospicua pensione in aggiunta a quella pubblica.

Lo sviluppo dei sistemi a capitalizzazione deve avviarsi al più presto, prima che si manifestino pienamente gli effetti del mutamento demografico, tenuto conto che tali sistemi hanno bisogno di tempo per accumulare il capitale necessario per pagare delle congrue pensioni future.

LEGGI ANCHE: LA NUOVA FRONTIERA DELLA SUSSIDIARIETÀ

Ma i fondi pensione arrecano benefici non solo ai lavoratori, sotto forma di integrazione dei trattamenti di base, ma anche all’intera economia nazionale, perché possono contribuire ad accrescere il livello di efficienza, solidità e stabilità del mercato dei capitali, investendo una quota rilevante del proprio portafoglio in attività fisse o a medio-lungo termine; a promuovere la raccolta del capitale di rischio da parte delle imprese, comprimendone in tal modo l’esposizione verso le fonti esterne di finanziamento (il cosiddetto “rapporto di leverage”); a preservare la compagine sociale dal rischio di scalate ostili; ad agevolare i processi di privatizzazione delle aziende pubbliche; a sostenere lo sviluppo dei settori ad alta tecnologia e, più in generale, delle iniziative imprenditoriali con forte contenuto innovativo. L’ampia dotazione di mezzi finanziari amministrati dai fondi consente di attuare una politica di diversificazione delle attività, ovvero di effettuare investimenti in comparti innovativi con rischio e rendimento elevati e, contemporaneamente, investimenti di tipo più tradizionale, ad esempio in titoli di Stato e azioni di grandi società.

Data la natura di lungo periodo della pianificazione in materia previdenziale, i lavoratori potrebbero non rendersi conto dell’esigenza di versare, su base volontaria, contributi ai regimi pensionistici a capitalizzazione sin dall’inizio della propria carriera. Ecco perché sono di fondamentale importanza le norme e le iniziative informative a sostegno del settore.

Le motivazioni di uno scarso uso della previdenza complementare
Secondo i dati di fonte Oecd, nell’ultimo decennio le attività detenute in portafoglio dai fondi pensione italiani si sono accresciute sensibilmente, tanto da rappresentare nel 2019 l’8,4% del Pil.

Si tratta di una percentuale superiore a quella rilevata nelle due maggiori economie dell’area Euro (Germania e Francia) in cui è rilevante il peso delle casse aziendali, ma abbondantemente inferiore a quella rilevata nei paesi europei in cui è più sviluppato il settore della previdenza complementare (Regno Unito, Olanda, Svizzera, Danimarca, Finlandia e Irlanda).

Se si prescinde dal tendenziale ristagno dei redditi da lavoro, sulla raccolta dei nostri fondi complementari pesano vari fattori, quali:

1. l’elevata incidenza dei contributi obbligatori, che ostacola nel nostro Paese lo sviluppo di un welfare sussidiario, fondato su una più stretta cooperazione tra soggetti pubblici e soggetti privati;
2. la ridotta adesione agli schemi pensionistici integrativi degli occupati con meno di 35 anni di età, che è ascrivibile in parte all’inadeguatezza degli interventi di sostegno e in parte alla scarsa cognizione del futuro tasso di copertura delle pensioni pubbliche;
3. l’assenza di fondi pensione in quei comparti del pubblico impiego in cui i rapporti di lavoro non sono disciplinati da ccnl, ma da specifiche norme di legge (forze armate, corpi di polizia, vigili del fuoco, docenti universitari ecc.);
4. il fatto che molti lavoratori continuino a mantenere il Tfr in azienda, malgrado il rendimento dei fondi risulti, nel lungo periodo, superiore alla rivalutazione del Tfr.

In particolare, il primo punto si tenga presente che, secondo i dati Oecd, in Italia l’aliquota contributiva Ivs si attesta, per i lavoratori dipendenti, su un valore (33%) superiore a quello rilevato in Spagna (28,3%), in Francia (27,5%), in Germania (18,6%) e in tutti gli altri paesi più industrializzati del globo.

Si tratta di un’incidenza che, unita ai bassi stipendi, alla diffusa precarietà dei lavoratori più giovani e alle numerose forme di lavoro autonomo prive di strutture previdenziali integrative di settore, contribuisce a spiegare il motivo per cui un ridotto numero di essi aderisce alle forme pensionistiche integrative.


Le proposte in sintesi
Riassumiamo le proposte volte a rendere più equo e sostenibile il nostro sistema previdenziale.
La prima, finalizzata a contrastare la graduale erosione delle pensioni pubbliche, prevede che per la rivalutazione del montante contributivo sia preso a riferimento anziché il tasso di crescita del Pil a prezzi correnti il tasso di rivalutazione del Tfr, o comunque un tasso tale da assicurare, assieme alla copertura integrale del rischio inflazionistico, un rendimento reale minimo.
La seconda, finalizzata al consolidamento dei fondi pensione, prevede ulteriori agevolazioni fiscali a beneficio degli aderenti, nonché una graduale riduzione dell’aliquota della previdenza obbligatoria compensata da un contestuale aumento dei contributi della previdenza complementare.
La terza è riferita al finanziamento dei fondi pensione da parte dei dirigenti di azienda e in generale dei percettori di redditi medio-alti, riducendo ulteriormente su base volontaria la contribuzione versata alla previdenza pubblica, tramite una rimodulazione del massimale contributivo, con devoluzione del minore importo versato all’Inps alla previdenza complementare. Tale proposta è da ritenersi aggiuntiva a quella di riduzione dell’aliquota della previdenza pubblica ipotizzata per la generalità dei lavoratori.

Ulteriori incentivi per favorire il ricorso alle forme di previdenza complementare
Vista la rilevanza e le potenzialità delle forme di previdenza complementare, occorrerebbe intervenire anche su altri fronti per favorire l’adesione dei lavoratori.

Ad esempio, sarebbe opportuno fare un passo indietro in merito all’aumento dell’imposta sostitutiva sui fondi pensione dall’11,5 al 20% disposto – con effetto retroattivo ai redditi maturati nel 2014 – dall’art. 1, commi 621 e seguenti della legge 190/2014, che ha determinato una tassazione addirittura superiore a quella del Tfr, fissata al 17%, con la stessa decorrenza.

Analogamente, andrebbe rivalutato il massimale di deducibilità dei contributi alla previdenza complementare, fermo a 5.164,57 euro annui dal 1997.

Sarebbe utile incrementare l’attuale limite di 3.000 euro riferito alla detassazione dei premi di produttività che possono, anch’essi, essere devoluti alla previdenza complementare, incentivando le best practice dei datori di lavoro volte a incrementare il valore del premio, se devoluto alla previdenza complementare, tenendo conto anche del risparmio sul costo aziendale rispetto all’erogazione del premio detassato in denaro.

Informare per prevenire e rilanciare la previdenza complementare
Ma gli interventi, per funzionare davvero, per essere compresi dai lavoratori, in particolare tra i più giovani, non possono prescindere da una responsabile informazione sui rischi di peggioramento della qualità del lavoro anziano, del livello insufficiente della propria pensione maturata nel sistema pubblico, ma anche e soprattutto sugli strumenti che il welfare privato, in particolare contrattuale, possono assicurare per contrastare tali rischi.

1. Com’è noto, nella generalità dei paesi più industrializzati il sistema previdenziale poggia su tre distinti pilastri:
•    il primo pilastro, di natura pubblica e a ripartizione, contempla il versamento di contributi obbligatori a enti della PA e l’erogazione di un trattamento di base;
•    il secondo pilastro, di natura privata e a capitalizzazione, si basa sui contributi versati ai fondi pensione (o ai piani individuali pensionistici) ed è volto a fornire un trattamento integrativo;

•    il terzo pilastro poggia sulla sottoscrizione volontaria di prodotti finanziario-assicurativi quali, ad esempio, le polizze vita, le quote di fondi comuni di investimento, i piani individuali di risparmio e i buoni postali fruttiferi.

LEGGI ANCHE: DIRIGENTI DEL TERZIARIO: LA PREVIDENZA SI FA IN TRE

Facebook
LinkedIn
WhatsApp

Potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca